Che case saremo? La casa post-lockdown di Luca Molinari

by Felice Sblendorio

Le lunghe settimane di quarantena hanno costretto tutti a relazionarsi con uno spazio privato, circoscritto, che riflette l’intimità di ciascuno di noi come la casa. Il coronavirus ci ha obbligati a interrogarci sui perimetri, sulla natura, sulla flessibilità e sulla confidenza che ci lega alle nostre case, per anni sottovalutate a favore di un dibattito intellettuale sugli spazi pubblici e sui comportamenti che producono i luoghi che abitiamo collettivamente.

La casa è diventata l’unica esperienza possibile in queste settimane, l’unico luogo protetto e governabile autonomamente, l’unico capace di proteggerci e contenerci – almeno in teoria. Ma com’è cambiato il rapporto con questi spazi che credevamo di conoscere alla perfezione e oggi ci sembrano differenti, versatili? E come sarà la casa del futuro dopo questo rapporto interrotto con la sua prosecuzione naturale, ovvero la città? 

bonculture l’ha chiesto all’architetto Luca Molinari, critico, curatore, professore di Storia dell’Architettura Contemporanea presso la Seconda Università degli Studi di Napoli e autore di un fortunato saggio, “Le case che siamo” (nottetempo, 110 pagine, 10 euro), appena aggiornato con un breve e-book gratuito pubblicato nella collana “Semi”, che ragiona sulle possibili visioni future degli spazi domestici post virus. “Che case saremo?” è la domanda.

Architetto, ha approfittato di questa quarantena per scrivere un breve aggiornamento del suo libro chiedendosi “che case saremo?”. Ma in queste settimane sono cambiate le case o siamo cambiati noi?

Le case non sono ancora cambiate per il semplice fatto che sono ancora quelle che avevamo prima che cominciasse questo periodo di quarantena. È cambiata la nostra consapevolezza, però, di come abitare e trasformare la casa. Le nostre abitazioni sono sottoposte da sei settimane a una specie di engineering familiare ossessivo: chi ha ricavato spazi, chi angoli, chi ha inserito connettività o piante. Prima la casa era un luogo in cui andare e restare in una distrazione generale molto ampia. Questo tempo, invece, ci ha donato, anche in maniera forzata, una consapevolezza dei luoghi che abitiamo completamente diversa da quella di prima.

La casa è diventata uno spazio incompleto, quasi un organismo a metà, senza la città. È per questo che viviamo in uno stato di incertezza?

Ho capito che la casa esiste perché esiste la città, e viceversa: sono due gemelli siamesi mai separati alla nascita. Noi abitiamo le case perché ci rifugiamo dopo aver vissuto la libertà della città, e la libertà e le città vivono perché tutti noi siamo in grado di avere una dimensione privata, intima e sacrale in uno spazio che non è pubblico. Non a caso, al contrario, tutti parlano di balconi, finestre, terrazze: tutte soglie che ci separano dal mondo esterno. Abitare la soglia delle finestre rappresenta il nostro desiderio di abbracciare le città.

Stiamo abitando le soglie, come lei le chiama, ovvero aree di confine come balconi, finestre, terrazze. È un prolungamento ideale che accorcia le distanze con quello che ci circonda?

Si è tutto trasformato in un micromondo, e di colpo abbiamo conosciuto vicini di balcone, gente che abita di fronte e con cui abbiamo cominciato a parlare per la prima volta. La riscoperta del quartiere in una città come Milano che non ha quartieri molto forti (a differenza di Napoli, ad esempio, che è un arcipelago di paesi), è una cosa molto interessante che è emersa tantissimo.

I balconi sono sempre stati una sorta di filtro per la desiderabilità sociale: scegliamo cosa mostrare all’esterno e cosa proteggere all’interno. Questa distinzione è venuta meno?

Per molta gente il balcone era un piccolo magazzino della casa. Oggi l’abbiamo trasformato per costruire un ponte, un dialogo con quello che c’è fuori. È diventato una ruota di pavone per attirare l’attenzione degli altri, per dialogare e cercare un contatto con delle persone che prima non ti guardavano.

Suggerisce di aumentare lo spessore delle finestre e di allargare nel futuro gli spazi di contatto comune delle nostre abitazioni. Anche le case sono spazi politici: perché abbiamo permesso di immaginare “cellule monastiche” in cui abitare?

In realtà non l’abbiamo permesso, ma l’abbiamo subìto. Chi ha vissuto il boom economico finalmente comprò una casa decente: quelle case, però, sono state costruite solamente nell’insieme di un palazzo, senza una città attorno. Erano micromondi separati: la casa, la strada e poi il nulla. La futura dimensione politica della casa è quella di riconvertire il patrimonio immenso dell’edilizia del dopoguerra (che rappresenta la maggior parte delle case degli italiani) con sviluppi energetici, spazi condivisi, mescolamento di funzioni e poi pensare a quello che sta fuori come uno spazio diffuso, condiviso. Il Covid19 ha esasperato qualcosa che era già presente in maniera radicale.

Lei scrive che la libertà e i limiti delle città circoscrivono l’abisso del nostro ego. Questa solitudine casalinga aumenterà l’individualismo oppure sarà una chimica sociale contraria?

Mi auguro che si avveri il secondo scenario che suggerisce. La città ci dà i limiti giusti e ci mette a confronto con quello che non conosciamo. Noi esistiamo perché siamo animali sociali, perché abbiamo scelto di fare della città uno spazio di convivenza. Le città ci sono sempre state, e sono sopravvissute anche alle peggiori epidemie. Dopo questo periodo sarà interessante capire come verranno modificate le relazioni all’interno dello spazio pubblico.

Quindi è utopistica l’idea lanciata da Stefano Boeri su Repubblica di ripopolare i nostri vecchi borghi?

Ma non scherziamo! È una battuta da radical chic solita di quei cittadini che sognano la campagna con ambienti bucolici. In realtà questa idea è vecchia: da vent’anni Ermete Realacci si batte sul recupero dei borghi storici e Mario Cucinella ne ha parlato all’ultima Biennale Architettura di Venezia. Bisognerebbe lavorare seriamente sulla qualità ambientale delle nostre aree urbane che, evidentemente, vanno ripensate radicalmente per vivere meglio. Dall’altra potremmo pensare ai borghi abbandonati come una rete di infrastrutture latenti che potrebbero donare moltissime occasioni, se messe in rete con il resto. L’obiettivo è quello di riportare la gente a fare comunità, rigenerare il territorio e fare economia e cultura in mondo diverso. Ci dobbiamo impegnare in uno sforzo politico e progettuale che riveda lo spazio extraurbano come una risorsa di lunga percorrenza.

Il rapporto fra casa e città in questi anni è stato di riduzione. Come cambierà la condivisione degli spazi privati dopo questo lockdown?

Credo che ci sarà una crisi dello sharing. Negli ultimi anni abbiamo pensato che la condivisione di tutto sarebbe diventata il tema del futuro. Adesso, la condivisione senza sanificazione ci preoccupa. Bisognerà capire cosa succederà nel medio e lungo periodo. L’economia di Airbnb oggi sta crollando e un rimescolamento delle tipologie di uso pubblico dei nostri spazi domestici potrebbe cambiare molte cose nelle dinamiche delle nostre città.

Questa emergenza ci ha ricordato che i luoghi che abitiamo, molto spesso, sono anche dei tormenti: la casa si può rivelare una gabbia, un luogo di potere crudele.

Quando succede questo, viverci diventa drammatico: un vero e proprio inferno. Mi hanno colpito due dati: i rifugiati politici non possono uscire di casa. Sono cittadini di serie B e ci sono associazioni di volontariato che portano loro la spesa a casa. Un secondo dato è il crollo delle denunce per le violenze domestiche. In questi casi vittime e carnefici vivono assieme: così la casa diventa una prigione, non più un caldo cuore accogliente ma uno spazio di violenza dove le contraddizioni domestiche esplodono. Credo che questo sia l’aspetto più preoccupante di questa quarantena.

La casa appartiene all’immaginario sacro e profano (la casa di Dio, la casa dell’uomo) e al mistero. Quale mistero della sua casa ha scoperto l’architetto Molinari?

Restano delle tracce. Restare a casa ti aiuta a guardare le cose in maniera più laica e amorosa. Ho riscoperto la casa come luogo multiplo incredibile, dove si fa ginnastica, si cucina, si parla con gli amici, si lavora, si guarda la tv, si legge un libro. Ho capito che il mistero più grande è la costruzione di un equilibrio armonico fra gli spazi e i corpi. Abbiamo ritrovato le misure giuste delle nostre case.

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