Cinzia Leone e la lingua sorgiva della madre in “Ti rubo la vita” che radica Miriam, Giuditta ed Esther

by redazione

Cinzia Leone è una scrittrice, giornalista, disegnatrice, autrice di graphic novels. “Ti rubo la vita” è il suo terzo romanzo dopo “Liberabile, storia di un uomo qualunque” e “Cellophane”. Una cosa posso dire per certo è che a Cinzia Leone piace raccontare, si immerge e ci immerge nella vita delle 3 protagoniste dei tre racconti, Miriam, Giuditta ed Esther e dei tanti personaggi collaterali.

Romanzo corposo, complesso, ben 600 pagine che però si leggono velocemente, il lettore viene preso dal ritmo della narrazione, a iniziare dalla  precipitosa fuga della famiglia Özal  nel primo racconto “Miriam”.

Il romanzo segue le vicende di tre donne, tre diverse identità religiose: Miriam una  turca mussulmana, l’ebrea Giuditta e Esther  metà ebrea e metà cristiana. La narrazione comprende 60 anni di storia del 900 a partire dal 19 aprile 1936 a Giaffa fino al 23 aprile 1992 a Tel Aviv, passando per Istanbul, Gerba, Alessandria d’Egitto, Basilea, Miami, Ancona, Roma, per finire in Israele.

Solo apparentemente 3 storie separate, in realtà è una saga familiare, le vite delle  protagoniste e dei protagonisti  ad un certo punto si intrecciano, ed ogni cosa sembra trovare una sua collocazione.

Senz’altro un tema centrale è quello dell’identità religiosa, identità mussulmana riconosciuta e rivendicata da Miriam eroina del primo racconto, identità ebraica in cui Giuditta non si è mai identificata ma di cui deve subire le conseguenze per le leggi razziali, identità mista di Esther che si sente  divisa, inquieta non sempre capace di trovare una sua collocazione.

TI RUBO LA VITA, a rubare la vita alle 3 protagoniste e non solo,  è la violenza patriarcale, violenza fisica e simbolica. Il romanzo inizia con la narrazione in diretta da parte di Avrahàm  Azoulay dello spaventoso pogrom  della sua famiglia: “Non ho nemici. La mia unica colpa è essere ebreo. Sono sopravvissuto al pogrom di Odessa, ma non a questo in Palestina.” Una breve pagina che ci fa entrare subito nelle vicende. Al piano di sopra la famiglia Özal, turco mussulmana, ascolta impotente quanto sta avvenendo. Quando tutto si placa Ibrahim scende al piano di sotto, davanti a lui un mare di sangue, non sa bene cosa fare, è preso dal panico e dal terrore, teme che possa essere incolpato dell’uccisione, sa  di aver perso l’unica possibilità del buon affare che aveva fatto con l’ebreo con cui sperava di riscattare la sua vita  finora fallimentare.  In questo sfacelo si fa strada un pensiero pericoloso ma molto attraente: si approprierà della vita dell’ebreo, lui, il mediocre Ibrahim Özal diventerà il ricco e abile Avrahàm Azoulay, dovrà solo convincere la moglie  Miriam  a diventare l’altra Miriam, e ad educare la figlia Yasmin come un’ebrea con il nome di  Havah.

Miriam, la moglie di Azoulay, è sconvolta da questo progetto, non riconosce più nel marito  l’uomo che aveva tanto amato e sposato a dispetto della sua famiglia. Miriam,  umiliata e abusata nel corpo e nell’anima dal marito, non vede altra via di fuga se non nel suicidio, lasciandogli  così  campo libero  e un pentimento che dura solo un breve momento.

A rubare  la vita a Giuditta, l’eroina del secondo racconto, sono le leggi razziali. In quanto ebrea, viene espulsa dalla scuola, dalle gare di nuoto che sono tutta la sua vita  eppure, nonostante le privazioni, la paura, le rimane la determinazione, la voglia  di amare il suo Giovanni che è cristiano.

Anche “Esther” nel terzo racconto non riesce a trovare una sua collocazione, è una donna inquieta, è per metà ebrea (da parte materna, quella che conta, e per metà cristiana) ha avuto sfortuna in amore, e quando l’ebreo Ruben Pardes le fa una insolita proposta di matrimonio suggellata da  un contratto perfetto, con regole ferree, si lascia a poco a poco convincere e ad accettare  che un contratto, l’aridità della legge, possa sostituirsi all’amore. Ma ovviamente le cose andranno diversamente.

Un’altra questione  che mi è sembrata importante e che mi ha fatto pensare nel romanzo è quella della lingua materna. Verso la fine del primo racconto, Havah, ormai grande, diventata un’ardente sionista, è scappata dalla casa del padre ed è andata a vivere in un kibbutz in Israele insieme al suo amore. E in questa terra promessa dove tutto è in costruzione, soprattutto la lingua deve recuperare il tempo perduto, trovare parole nuove, Havah si ritrova a pronunciare parole in turco, che assolutamente non sapeva di sapere.

“Si guardò le mani sciupate dal lavoro e l’anello con l’acquamarina di sua madre che scintillava all’anulare sinistro.”Akuamarin” pensò, ma si trattenne dal pronunciarlo ad alta voce … perché conosceva anche il termine turco per quella pietra tanto amata? Parole vaghe e smarrite affiorarono insieme a carezze dimenticate. “La lingua custodisce i nostri segreti” sentenziò Shlomo ben Ephraim ripulendo la lavagna dalle tracce di gesso. “E le parole sono lì a ricordarceli”

Più che segreti  direi che lì nella lingua che affiora all’improvviso in modo vago e smarrito, lingua sorgiva che impariamo da nostra madre da piccole e ancora prima nel grembo materno, c’è un radicamento, c’è un’esperienza che vuole essere riconosciuta e significata, una lingua carnale fatta di carezze, solo apparentemente  dimenticate, pronte a venir fuori a ricordarci la parte  più profonda, più autentica di noi, a cui bisogna attingere per non perdere di vista la nostra origine e  occupare degnamente un posto nel mondo.

Adele Longo

Circolo La Merlettaia

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