Come una santa nuda: la solitudine abitata di Alessandra Saugo

by Giammarco Di Biase

Esiste una pratica per accostarsi ad ogni scrittore. Una legge che passa attraverso gli occhi di tutti ed è vero che, per quanto riguarda la poetica di Alessandra Saugo, questo esperimento di “ascoltare” le parole cambia di segno, si oppone addirittura alla “normativa” dei dettami umanistici, chiede attenzione e perseveranza: la lettura così diventa un supplizio per il Bene, il sacrificio per una sterminata fede. Come una santa nuda nasce come testo grazie alla riapertura di uno spiraglio voluto, cercato, desiderato dalla casa editrice napoletana Wojtek Edizioni: un recupero edificante che segna, finalmente, dopo anni di assenza il ritorno di una delle scrittrici più editorialmente sottovalutate della nostra letteratura. Alessandra Saugo nasce il 14 gennaio 1972 a Valdagno (Vicenza) e scompare il 22 settembre 2017. Ha pubblicato Bella pugnalata (Effigie, 2010) e Metapsicologia rosa (Feltrinelli, 2017).

[…] Pensa quei punti corporali così sfrenatamente genitali. Così iperrealistici. Li hai visualizzati? Perfetto. Con tutto che in realtà sono i punti del corpo che hanno i piedi per terra meno di tutti. Meno anche della testa. Che sono sempre costretti a vivere in un mondo di fantasia, anche di più della testa, perché sono chiamati a fare solo sempre cose iperrealistiche. La testa non sempre. Ha più scelta. Loro non hanno scelta. Guardali lì. Condannati. Debolezze fatte a organi. Come fanno. Espletamenti. Che colpa ne hanno di essere deputati così? Evadono, le vergogne, si astraggano. Sono completamente fuori di sé ogni volta che arriva il loro turno, poverette.

Come una santa nuda esce a sei anni dalla scomparsa della sua autrice ed è una sorta di trattato sull’enormità intrinseca della parola, sul suo infinito stiramento e sull’uso proibizionistico che se ne fa sino al suo sgretolamento: la parola (il logos) autonoma e edulcorata rispetto a chi la scrive, cesellata e punteggiata com’è, allungata e posta come vezzo o come virtù, squilibrio potente di una comunitaria sintassi. Il suo intercalarsi come denuncia, la sua eredità glottologica come rottura data da uno squilibrio di nervi sotto le brame del capitale e del capitalismo. Il fonema, la lemma, la voce della Saugo è significato e significante annientati e depauperati per raggiungere una nuova profondità di senso. Lo stile della scrittrice è Il locus, il dedalo privilegiato e accattivante di una solitudine ri-creata e abbandonata allo spettatore, un romitaggio abitato dalla donna senza condiscendenza e con tanta civetteria e indignazione. Alessandra Saugo ci lascia una voce narrante immersa in tutti gli intrecci della vita irriducibile ad un significato univoco (le figlie, il compagno, i “colleghi” scrittori, lo psicanalista, la malattia, i programmi tv, il supermercato-Eden).

Se il corpo è sessuato è ferito. Chiaro, questo? Mi segui John? Ferito. Già di per sé. E ci sono persone che oltre a questo caratteristico svantaggio hanno in più anche il problema della violenza. Hanno il corpo con la violenza. Come fosse stato sessuato due volte, ma la seconda volta non per mano di Dio, e allora è più difficile trovare una religione per quella mano che non era Dio. Non l’ha fondata nessuno, non c’è. Fanno molta fatica a essere stati sessuati il doppio, e da arti non autorizzati.

In questa sfida della grammatica, nel portamento sinuoso che s’affretta a diventare sempre più un rituale o un’onomatopeica, Alessandra Saugo ama sostare. La musicalità coreografica restituita ai sensi del lettore rammenta la vicinanza della scrittrice al mondo della poesia, se non altro perché si “versifica” il surrogato di un racconto prosastico contaminandolo di un’epidermica e saturata saggistica, la cronaca si mischia con il memoir, gli usi e i costumi con il gossip del mondo che viviamo e di cui siamo vittime imperiture. Partorisce così il suo isolamento, la Saugo, la sua dissidenza e infinita divergenza dal comune pensare: intrattenendosi nel suo formalismo come un’ospite inattesa. La motivazione della sua estetica (“motivazione” che nell’etimologia greca si traduce nel termine più affine “thimos” cioè spirito e, quindi, anima emozionale) è la seguente: raggiungere una trascendenza nella corruzione delle parole, restituirle in un nuovo abitato. Una prigione che percepisca un’individualità felina ed indomabile, un’esistenza femminile sola al mondo capace di re-inventarsi in un’altra sfacciata identità, puntata sotto riflettori più sensibili e meno diabolici. Cos’è la letteratura se non il teatro dell’Io? Come una santa nuda ricorda l’amplesso narrativo e reazionario di due grandi solitudini: Clarice Lispector e Carmelo Bene, il loro scrivere “con tutto il corpo” ri-creando un mondo in cui vivere. Edificare una stanza d’esilio, ma essere ancora e per sempre nella memoria.

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