Contro l’epoca del consenso: “Bianco” di Bret Easton Ellis

by Felice Sblendorio

Quasi sempre, forse per un sentimento dei tempi, quando si parla di libri, scrittori o intellettuali è tutto un abbondare di capolavori, libri dell’anno, dispositivi culturali indispensabili per capire il tempo che corre e cose di questo genere. Nel commento culturale, soprattutto social, non c’è nessun testo che riserva per sé una dote di normalità, nulla di più o di meno. Quando esce un grande libro, però, uno di quelli che in maniera quasi spontanea spiega il nostro presente senza troppe strutture, la differenza si nota.

È il caso di “Bianco” (Einaudi Supercoralli, 280 pagine, 19 euro) di Bret Easton Ellis, l’autore statunitense che ha segnato e rappresentato un’epoca e una generazione con i suoi romanzi. Se il ricordo è ancora legato ai fondamentali “American Psycho”, “Luna Park” o “Meno di Zero”, il libro appena uscito in Italia con la traduzione di Giuseppe Culicchia è un ibrido a metà fra il pamphlet critico, il saggio e lo scritto polemico che, partendo dalla sua infanzia e narrando chi è stato (e come ha vissuto) quel giovane di successo così poco conforme ai canoni, non risparmia nessun giudizio di valore sul nostro tempo.

La forma, è necessario sottolineare, non è casuale perché è il prodotto di quasi sei anni del lavoro di uno scrittore che ha segnato un prima e un dopo; che non ha mai scritto con l’intento di provocare una reazione ma, proprio come succede con la grande letteratura, l’ha implicitamente causata, indotta, incanalata. Così accade con “Bianco”, nato sulle ceneri di un romanzo naufragato e dall’idea che la letteratura non sia più efficace, non abbia più il peso giusto per incidere, interrogare. Non so se sia effettivamente così, però il primo grande spunto di valore di questo libro è proprio questo: dove ci ha portati la democratizzazione dell’arte? Dove ci ha condotti questa interpretazione iper-moralista? La risposta, per l’autore di un romanzo contraddittorio e ambiguo come “American Psycho” che all’epoca rischiò di non essere pubblicato, sono i sentimenti che viviamo ogni giorno: indignazione facile, identificazione dell’arte con l’artista (per non scomodare Cèline, c’è Woody Allen pronto a testimoniare), vittimismo per classificarsi, dosi estreme di ipocrisia e una sorta di tendenza alla protezione. L’arte come corpo contundente per sconvolgere è un vecchio modello: ora serve una bolla sanitaria dove tutto deve essere sicuro, familiare, quasi a prova di bambino.

“Questo è ciò che accade a una cultura quando non gliene frega più niente dell’arte”, scrive Ellis. E, forse, è proprio così: la presunta morte di un oggetto artistico caro all’autore come il romanzo, ad esempio, diventa un problema più sociale che estetico perché se si è disposti a giudicare l’arte solo con i parametri dell’ideologia, della morale e della predisposizione al giusto è ovvio che qualcosa si inceppi. Ma questa non è una novità. Sembra ancora più attuale e vicina, a poche settimane dalla morte di Harold Bloom che ne teorizzò il contrario, l’idea di una letteratura sempre più utile per educare nuovi cittadini, per amplificare ideologie e battaglie politiche, per spingersi lungo la divisione oppositiva che ci chiede o l’intrattenimento, quindi la spensieratezza, oppure l’impegno, quindi la battaglia per qualcosa o contro qualcuno.

Questa raccolta di saggi, invece, riporta la materia della scrittura allo scrittore, rendendo politico e cocente il tutto senza che ci sia una predisposizione ideologica netta. A me è capitato, e spero capiti a chiunque lo legga, di sentirmi assediato, interrogato, continuamente messo a disagio da uno specchio che mi ricordava con forza, grazie allo stile che rende tutto fermo, le storture di questo nostro tempo. Servono a questo gli intellettuali: a ricordare il processo del dubbio con i suoi tempi e i suoi passaggi così da non avere subito un giudizio netto, tagliente. Un lusso che nell’epoca del consenso e dei social è quasi svanito. Nel grande tribunale della rete ora c’è spazio solo per il verdetto in una soluzione che non include il dibattito, la discussione, il non posizionarsi a tutti i costi. E se i fatti sono argomenti testardi, le opinioni su cui Ellis si sofferma sono sfumature difficili da incasellare perfettamente e ricondurre a sé nei campi del giusto e del possibile. Per tutto questo non c’è tempo e in questi otto saggi lo scrittore arriva a criticare ferocemente questo nuovo totalitarismo del politicamente corretto e la sua generazione simbolo: la mia, quella dei millennials.

In questa articolata polemica, Ellis forse assume quella posa passatista tipica di quegli scrittori privilegiati che vedono il mondo attraverso il filtro dei propri tempi, ma non oserei ridurre il suo esercizio critico a sterile provocazione. Basta scorrere alcune bacheche di Twitter per accorgersi di come questa generazione (e non solo) sia esasperata, sempre sulla difensiva, intrappolata nella sua bolla di superiorità. Non arriverei a considerarla “inetta” come fa l’autore, ma che sia il concentrato di virtù circoscritte e di un moralismo controllato credo sia vero. Sempre più spesso si è costretti ad assecondare il mainstream, a indignarsi per forza, ad alimentare una proiezione che più che riflettere l’Io riflette un Noi collettivo, spersonalizzato. Così si riduce la comprensione del mondo a una metà, quella che ci assomiglia, mentre il mondo vive e muta soprattutto fuori dai social.

Sembriamo quasi intrappolati oggi. Con facilità scegliamo con chi parlare, chi leggere e coinvolgere, chi ignorare perché non condividiamo le sue idee oppure le sue opinioni politiche. Tutto è basato sull’identità e sulla politica: o dentro o fuori. Non ci sono più le sfumature che aprono al confronto. Abbiamo abdicato la gestione di uno spazio complesso come quello della dialettica e della crescita delle opinioni divergenti a favore di un mondo polarizzato, un mondo cucito su misura per allontanare ogni nota stonata, ogni inquietudine.

Alla fine di queste pagine, che volano via gradevolmente fra aneddoti, biografia e slanci provocatori, non so se le risposte di Ellis siano tutte giuste, tutte precise per descrivere e analizzare queste mutazioni epocali. Forse, però, questo dubbio è inutile perché i grandi scrittori non hanno il compito di fornire risposte ma solo di agitare domande, e una di quelle che “Bianco” dona al lettore credo sia fondamentale: davvero siamo diventati così?

“La maggior parte di noi oggi conduce sui social una vita che è più fondata sulla finzione di quanto non fossimo in grado di immaginare anche solo una decina di anni fa, e grazie al germogliare di questo culto della popolarità in un certo senso siamo diventati tutti degli attori. Abbiamo dovuto ripensare i modi in cui esprimere i nostri sentimenti e i nostri pensieri e le nostre idee e opinioni nel vuoto creato da una cultura delle corporation che ancora e sempre cerca di ridurci al silenzio risucchiando tutto ciò che resta di umano e contraddittorio e vero attraverso regole prestabilite che dicono come ci si deve comportare. Sembriamo aver fatto pericolosamente ingresso in un tipo di totalitarismo che in realtà aborre la libertà di opinione e punisce chi si rivela per quello che è davvero. In altre parole: il sogno di ogni attore”.

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