D’amore e di battaglia: la Pietà copiata di Crocifisso Dentello

by Giammarco Di Biase

Nella prima pagina, che è la prima pagina della sua opera prima, contempla di buttarsi dalla finestra della sua stanza per “sperimentare l’ebbrezza della caduta del vuoto, l’impatto sull’asfalto, i gemiti dei passanti”: e poi dice dopo un punto che ha l’effetto di un baratro, che lo si guardi da sopra, o che lo si stia vivendo in discesa “Nessuna sofferta vocazione di un gesto estremo”.

Ecco, se si potesse, ad oggi, descrivere la letteratura di uno dei pochi grandi scrittori italiani, dopo “La vita sconosciuta” (2017) e adesso con l’uscita di “Tuamore” (La Nave di Teseo, 2022), forse con un nesso che abbraccia tutti i contenuti e la sua parola dispiegata in pagine di vita sofferta, potremmo riutilizzare questa frase molto spesso: “Nessuna sofferta vocazione di un gesto estremo” per raccontarla.

Ne “La vita sconosciuta” Ernesto, cinquantenne disoccupato, reduce da un incontro sessuale con un gigolò arabo, rincasa nel cuore della notte e scopre la moglie Agata riversa sul divano senza vita. Lei- costretta a lavorare come domestica per salvare il bilancio familiare- ha sempre rimproverato al marito una “colpevole rassegnazione”.

Colpevole rassegnazione”, ecco un’altra stereotipia, permettetemi di dirlo, un’altra nota poetica riputata, una costante tra le pagine sempre riflessa ante litteram su ciò che prima di costruire ha imparato Dentello, prima tutte la poetica pasoliniana, e per imparare si intende proprio studiarla, dopo di amarla.

Questi connotati che appendono la parola agli occhi di chi legge, la fissano con la loro scarna potenza, sono cifre stilistiche di una mancata agiatezza, sono retoriche di un mondo che si è creato Dentello, un tonfo letterario (di rumore, non di grandezza!) e subito alla pagina dopo una morbidezza refrattaria, un’evidente voglia di liberarsi di e da qualcosa, di perdonare, di procedere con “discretezza” soprattutto.

E’ la “discrezione” la più grande arte di Dentello che però si apre all’osceno, alla scossa, alla smossa, al presagio di una vita condensata, senza ribellione che anche quando la vuole, la sfida senza averla mai in mano. La letteratura di Dentello è una impossibile possibilità, è una possibile impossibilità.

Non vi è “una sofferta vocazione di un gesto estremo” e c’è “una colpevole rassegnazione”: un limbo dove a quanto pare c’è tanta vita, un limbo dove si racconta di un’altra vita, che sia quella di Anna che legge poesie di Pasolini, che sia la vita di Agata refrattaria alla santificazione, eppure che sta lì lì per simularne gli impeti e le sottomissioni, che sia quella della madre dello scrittore, Melina, nell’ultimo grande suo libro, Tuamore.

Se ne “La vita sconosciuta” la morte di Agata era un espediente, diciamo così, per narrarla, per omaggiare una vita, per dissipare la propria da scrittore, tra sesso e decadenza omo, in una stazione, in un parco milanese pieno di siringhe e sporcizia, che lo stesso protagonista diventi egli stesso sporcizia e desolazione nei confronti del femmineo ma in genere dell’amore sempre contaminato da una battaglia per la vita, in “Tuamore” la battaglia non è un impeto politico: non è salvarsi da una vita misera. La battaglia è il tumore di Melina, sua madre, un tumore al seno, che raramente viene ripetuto come parola, non tanto per esorcizzarla, ma come per mezzo di un pensiero magico: da tumore a Tuamore, ne caratterizza la sventura sempre, ma ne approfondisce la passione, la tenerezza ancor prima della crudeltà. Se Agata, con un passato sentimentale prima delle Brigate rosse, si cimenta nella preservazione di un proprio ideale che forse più che ideale e bisogno di emancipazione come personaggio sociale, è prima di tutto “bisogno” e basta: pagare conti, pagare bollette, mettere un piatto a tavola: le protagoniste e i protagonisti della letteratura di Dentello sono frecce che non si abbattono mai, sono una chiamata senza risposta, una guerra sempre in armistizio, qualcosa che inizia e che non finisce, anzi per dirla giustamente: non “smettono” mai di finire, dando comunque nell’insieme una dottrina di cambiamento, imposto o voluto che sia. Un movimento pur sempre stante. La letteratura di Crocifisso Dentello è letteratura di prefisso e di scarto proletario, dove la parola “proletaria” oltre che sintesi interventista estetica e lessicale stemperata da mito diventa azione proletaria, contenuta senza miraggi.

La poetica di Dentello è un gesto che si protende sempre senza mai essere accolta dalla forza levatrice della vita. Un lungo disincanto che vorrebbe essere incanto, eppure se lo diventa, è un incanto “misero” o una “miseritudine” di incanti, come questa stessa parola, che foneticamente sempre una scia che vive nelle ossa e nel cuore, badando sempre pur prima alle ossa.

In questa sacralità senza sacro, si nasconde la sua scrittura, la sua portata emotiva gigantesca, un po’ come nel cinema francese di Bruno Dumont: un gesto di lettura che mischia sacro e profano, ma non sono mai né l’uno ne l’altro.

I libri e le opere di Crocifisso Dentello sono copie di una Pietà, quella di Botero, ad esempio, perché non hanno letizia, non hanno riposo, ma sono Pietà spossate, fragili, mai assertive, ma si spossate, spossatissime, fino alla letargia che però le parole non accomodano mai completamente, perché sempre accese e prepotenti, ma anche misurate, seppur fulminee e di grande apparizione. Sono icona copiata e mai iconoclaste.

Agata come il protagonista di “Finché dura la colpa”, come Melina in “Tuamore”, sono oltre la battaglia, sono protagonisti mai fino in fondo romantici, in loro c’è un sentimento di rivalsa, così da una “fatica”, così da un’altra “fatica”, quella della malattia, sono sentimentali e mai sentimentalisti, si spengono in silenzio, il loro spettacolo se c’è è durato poco per essere subito dopo dimenticato e ripreso, o per ritornare dopo tempo come memoria mirabile. Sono donne e uomini che hanno vissuto il proletario, la povertà, l’astuzia dispregiativa e mai accomodante della vita, sono una verve immonda tra le pieghe e le ferite, sono luce opaca. Mai in corsa, mai in attesa, ma mai neanche soggiogati: perché essere sociali, come essere amanti, come preparare una pietanza dopo e prima la stanchezza, masturbarsi su un divano e dormire di una depressione mortale, ferirsi sul proprio stesso corpo, sono pur sempre donne e uomini che combattono la vita, contrabbandando tranquillità per una tardiva speranza rimaneggiando e negando un potenziale attentato e una illusoria speranza, combattono la Storia, quella soprattutto italiana: la letteratura di Dentello non è un tranello per restare in piedi, non è andare contro le aspettative distrutte, ma è combattere la vita per amare la vita, quel poco ancora che permette la respirazione neurologica del diaframma.

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