Democrazia e felicità: oramai utopia? Un dialogo con Mattia Feltri

by Felice Sblendorio

Nel mondo delle democrazie contemporanee “in crisi”, dominate oramai da un tratto distintivo sempre in sottrazione – “senza memoria”, “senza popolo”,senza futuro” – è ancora possibile indagare il legame che intercorre fra la democrazia e il tema della felicità? La domanda l’abbiamo posta a Mattia Feltri, giornalista colto e arguto del quotidiano “La Stampa” che ogni giorno, dal 2017, firma con uno sguardo mai ovvio e retorico il suo “Buongiorno”, il corsivo di prima pagina del quotidiano piemontese che analizza principalmente i fatti della politica e del Paese. Dalle origini della democrazia ai limiti travalicati dei desideri, dal populismo ai doveri sempre più marginali nel dibattito sociale, Feltri traccia una disamina di alcuni dei fattori che stanno facendo perdurare la lunga notte delle democrazie occidentali. bonculture vi propone questo dialogo realizzato in occasione dei Dialoghi di Trani.

Partirei dal rapporto fra democrazia e felicità. Una delle missioni della democrazia, fin dalle sue origini, è stata quella di esaudire nel mondo terreno un desiderio stabile di felicità: condivide?

Lei parla di felicità terrena e proprio questo è il punto fondamentale. Della democrazia si è detto di tutto, ma per andare al cuore del problema potremmo dire che la democrazia non è stato altro che il tentativo, o la decisione, di trasferire la promessa di felicità dall’aldilà all’aldiquà. Per secoli abbiamo vissuto con l’idea di non poter raggiungere una felicità terrena perché ci avevano indicato una sola felicità possibile, quella ultraterrena. Le cose cambiano quando si decide che l’amministrazione della cosa pubblica debba essere fatta dagli uomini e non da Dio, o meglio da uomini che non sono stati rivestiti di questo compito direttamente da Dio. Così nasce la democrazia. Il legame con la felicità arriva poco dopo: nel 1776 c’è la Dichiarazione d’Indipendenza americana, firmata da Benjamin Franklin, che garantisce “il diritto al perseguimento della felicità”.

Le dichiarazioni, appunto. Non solo quella americana, ma anche quella francese sancisce questo diritto e va anche oltre, spiegando che il risultato del governo deve essere la “felicità di tutti”. Le cose così si complicano?

Sì, quello è un passo in più che complica le cose. Nella rivoluzione americana si dice che l’uomo ha diritto alla felicità e nessuno può ostacolarlo perché il singolo è artefice del proprio destino. In quella francese, che verrà scritta tredici anni dopo, si dice che il governo deve favorire la felicità. In tredici anni si spacca tutto: non sei tu artefice del tuo destino, ma qualcun altro deve aiutarti. Ora, qual è il problema? Lo individua subito Alexis de Tocqueville nel 1830 nel suo “La democrazia in America” con un’analisi perfetta: il bello della democrazia è che tu puoi desiderare tutto, ma il disastro è che subito si desidera troppo, e quando si desidera troppo la democrazia collassa.

La felicità si unisce per forza di cose al desiderio in un legame simbiotico. Seguendo ancora le orme di Tocqueville: dove portano i limiti violati del desiderare?

Tocqueville quando va in America è estasiato perché hanno fatto una democrazia senza aver bisogno di tagliare la testa al Re, una democrazia subito occidentale perché, mentre nella democrazia francese dei primissimi anni si cercò di replicare l’Atene di Pericle con risultati disastrosi, quell’esperimento già funzionava. È ammirazione ma anche preoccupazione la sua: nota già i limiti ben precisi di quel sistema. Per Tocqueville la democrazia si regge se il desiderio è circoscritto in limiti precisi. Il desiderio illimitato è in perfetta antitesi con il gioco democratico. La visione del filosofo parigino è attuale anche oggi che i limiti violati ci hanno donato questo caos, i diritti sono diventati esorbitanti rispetto ai doveri e non si capisce che, diritti e doveri, sono due modi per chiamare la stessa cosa.

Il professor Giovanni Orsina, nel suo “La democrazia del narcisismo”, ha scritto: “Gli elettori mirano a soddisfare il proprio bisogno immediato di benessere psichico scaricando le emozioni negative da cui sono assediati: paura, rabbia, senso di impotenza”. Il cortocircuito più forte che ha prodotto questa crisidella democrazia occidentale è il marciume dei desideri traditi?

Tutto il mondo occidentale individua da sempre il nemico del proprio malcontento. È un processo classico: quando non sei contento devi capire la causa che è sempre la prima che passa, perché non devi mai far fatica a individuarla. Se un governo deve pensare alla tua felicità, allora tu hai il diritto di avere desideri all’infinito. La democrazia, per come è fatta, è una questione di mercato: io per essere eletto rilancio e devo sempre rilanciare, e chi mi vota deve credere che quello che io dico sia realizzabile. Qui si incarta la democrazia perché non solo c’è una moltiplicazione incontrollata dei desideri, ma c’è anche una promessa incontrollabile di bisogni che la politica dovrebbe realizzare. La democrazia per funzionare è essenzialmente autolimitazione in nome della libertà. Autolimitazione che deve essere anche dell’elettore. Huizinga diceva che la democrazia poteva funzionare solo se tutti noi avessimo limitato i nostri diritti, la nostra pretesa di benessere. Secondo lui era l’unico antidoto per non cascare in grandi errori storici come il nazismo e il comunismo. Oggi sta ancora funzionicchiando, ma se crollano le nostre democrazie ritorneremo all’illiberalissimo, alle dittature, guerre…

Dopo la stagione storica dei partiti di massa, si è ritornati ad utilizzare politicamente la massa politica e a preoccuparsi di particolari modelli autoritari nel loro utilizzo. Come si è trasformato l’utilizzo di questo gruppo informe di persone nel nostro contemporaneo?

Si parte dal Pci, il partito comunista più forte dell’Occidente, per il quale l’interlocutore era la massa, con la convinzione storica hegeliana che la massa debba andare nella giusta direzione. Viene un po’ meno poi a cominciare dalle pseudo rivoluzioni degli anni ’70, ma poi ritorna con la grande rivoluzione di internet. Come diceva Elias Canetti in “Massa e potere”, se c’è una cosa che hanno in comune le masse è il senso di persecuzione e vittimismo. Questo spinge le masse alla ricerca di un nemico immediatamente visibile, riconoscibile e riconosciuto. C’è un passaggio in “Guerra e pace” in cui si racconta dell’entrata di Napoleone a Mosca: il rappresentante del Governo tira fuori dal carcere uno che faceva parte dell’amministrazione pubblica e lo da in pasto alla folla inferocita dicendo che era stato lui ad essersi venduto al nemico e che, per colpa sua, Napoleone stava entrando in città. La massa lo ucciderà: non risolverà il problema, ma ha conquistato la sua vendetta. La democrazia oggi asseconda questo senso di persecuzione. Questo uso delle masse, che si è perfezionato alla ricerca di tante masse settorializzate, complica il corso attuale della vita pubblica perché dice quotidianamente: tu sei massa e sei una vittima. Ma quando un popolo non funziona non funziona nel suo complesso e, quindi, bisognerebbe dire: noi tutti stiamo sbagliando, ma  questa non è una proposta allettante.

Hanno sbagliato anche le vituperate élite?

Io penso che oggi non esista l’élite perché c’è stato un rifiuto, una vergogna di sentirsi tale. Riprendendo l’esempio del Pci: quello era un partito che aveva degli elementi populisti ma aveva come grande obiettivo quello di innalzare la massa. C’era l’idea di emanciparsi. Oggi non c’è più questo tentativo, perché la classe dirigente dice: dobbiamo essere al livello della massa, ci dobbiamo abbassare noi. Sono convinto che Salvini, che ha frequentato un liceo della Milano bene, abbia più strumenti di quelli che esibisce. Non regge il suo profilo come gretto, regge semmai il fatto che più ci si abbassa al sentire della massa e più si risulta comprensibili e, per forza di cose, votabili.

Le élite hanno fallito e l’uno-vale-uno, la voglia di essere idealmente diretti amministratori della cosa pubblica, avanza sempre più nel dibattito pubblico. Cosa ne pensa delle teorie della democrazia diretta tanto invocate in questo Paese?

Io sono convinto che le cose, così come stanno andando, non funzionano. Temo, e mi costa molto ammetterlo, che una forma di democrazia diretta vada studiata, anche se io ci credo poco. Rousseau nel suo “Contratto Sociale” parla di questa forma di democrazia che può funzionare solo se si ha coscienza di quello che si sta trattando, solo se uno sa precisamente di quello che si tratta e noi, così come viviamo il dibattito pubblico, vediamo e facciamo tutto in maniera pregiudiziale, sentimentale e una democrazia fondata sul pregiudizio non funziona. Detto ciò: non può essere plebiscitarismo, assolutamente no. Io non sono un costituzionalista quindi non posso teorizzare un modello, ma va fatta una destrutturazione e costruzione di nuove forme di democrazia.

Quando si parla di democrazia si parla anche di populismo, per alcuni non la malattia ma il  sintomo delle patologie della nostra dimensione politica. In Italia, oggi, cosa nota?

L’ultimo governo era fra il populista e il sovranista. Il populismo in questo Paese è considerare il popolo portatore di ogni virtù che è contrastata da una classe dirigente portatrice di ogni vizio: una gran cazzata teorizzata dai 5stelle. L’ultimo governo era diviso fra la Lega che diceva “Ci penso io a te” e i 5stelle che ribadivano “Dobbiamo pensare tutti a noi stessi, ci dobbiamo riappropriare dei nostri spazi”. Alla fine, però, sono tutti populisti guardando le campagne elettorali. Si dice sempre votate noi, i migliori, perché gli altri sono ladri, maledetti, corrotti, farabutti. Un classico.

Ma in questo strambo Paese il sintomo del populismo quando trova sostanza politica? Molto spesso si evoca Tangentopoli…

No. Dal mio punto di vista la data convenzionale della nascita del populismo in Italia è il 28 luglio del 1981, quando Eugenio Scalfari intervista Enrico Berlinguer. Lui aveva già capito che la forza propulsiva dell’Unione Sovietica era finita da tempo, ma non riusciva a staccarsene fino in fondo per motivi economici, per la crisi che si doveva gestire della rivoluzione armata nelle piazze. Con Aldo Moro cercò invano di realizzare un compromesso storico con l’idea di portare il comunismo in una forma occidentale al governo ma, come tutti sanno, fallì quel tentativo. Nell’81, allora, è perduto e manda al suo popolo un messaggio chiaro: la questione morale non dice gli altri rubano e noi no, anche perché le tangenti il Pci le prendeva già da un decennio. In quell’intervista Berlinguer fa capire che gli altri amministrano il potere per il potere, mentre loro lo fanno per il popolo. E se il dilemma è quello del perché la gente vota gli altri, la risposta è semplice: perché hanno un tornaconto che non è limpido. In quell’intervista si dice che il popolo del Pci è minoritario ma migliore. E questa è una cesura pazzesca: stai stabilendo che gli altri non hanno una moralità. Quando tu non riconosci una legittimità al tuo avversario, quando tu ti attribuisci una superiorità morale o antropologica, lì nasce il populismo. Poi, intendiamoci: quello di Berlinguer è un discorso raffinatissimo, ma messo alle strette fece quell’orrenda intervista con un gigante del giornalismo. Mai nessuno aveva detto prima di lui quelle cose lì.

Un suo collega di corsivo, Michele Serra, ricorda sempre che “I governanti non sono migliori dei governati”. Che patto unisce l’eletto e l’elettore?

La democrazia rappresentativa delegava, non cedendo completamente ogni responsabilità, a una classe dirigente con la stessa idea di mondo dell’elettore le cose da fare. Oggi, invece, la democrazia è: “Io ho dei problemi, tu me li risolvi, ma se non li risolvi sei una testa di cazzo; vaffanculo”. La politica oggi è “Raccoglimi le cartacce che io ho buttato per terra”: questo è il patto che lega elettori e eletti. Può andare avanti una roba così? Non credo.

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