Demoni Urbani (su carta). Paternò Raddusa: «I mostri sono tra noi perché il male ha la singolare abitudine a essere una cosa assolutamente normale»

by Felice Sblendorio

I mostri sono tra noi. Nelle tenebre delle città, nelle periferie, nei centri urbani iperconnessi, in certi margini del Paese: così singolari, così arcaici. Nelle vicende di “Demoni Urbani” (Sperling&Kupfer, 240 pagine, 17.90 euro), una raccolta ispirata al fortunatissimo podcast omonimo prodotto da Gli Ascoltabili, Giuseppe Paternò Raddusa fa vivere quattordici storie in una ballata nera del crimine. Non ci sono solamente i fatti, il sangue, ma c’è una narrazione che tenta di comprendere e raccontare, ricostruire personalità e contesti, indagare fragilità e patti sociali traditi.

L’autore, responsabile editoriale della stessa piattaforma di podcast e sceneggiatore insieme ai due registi del film “Maschile singolare” disponibile su Prime Video, interpreta omicidi conosciuti e meno noti con uno stile originale, ricercato, mai banale. Il male, così, si allontana dalla spettacolarizzazione televisiva e diventa materiale narrativo pensato non incuriosire superficialmente, ma per scavare solchi nelle coscienze, interrogare, inquietare nel profondo. bonculture ha intervistato Giuseppe Paternò Raddusa.

Le storie di “Demoni Urbani”, contenute in questo libro e raccontate nel podcast, vanno oltre il crimine e superano il sangue per raccontare un fatto umano. Perché questa scelta narrativa?

Non esiste nulla di più umano del crimine. O meglio: il crimine, il sangue e il male, fanno parte della vita. Riguardano persone, e noi quelle raccontiamo, come se fossero personaggi da romanzo, senza trascurare la centralità di eventi realmente accaduti. È inevitabile che le storie ne superino i contorni, per posizionarsi tra percezioni che muovono l’umanità. Esiste, poi, una fascinazione effettiva che esacerba la componente umana di queste storie, ed è dovuta al sex appeal del crimine. Lo dimostra il successo del podcast de Gli Ascoltabili che ha ispirato la scrittura di questo libro. Col podcast siamo “tutelati” dalla voce straordinaria di Francesco Migliaccio, che vive anche le virgole, che non si limita a leggere i testi, ma li provoca, li turba. Col libro è stato diverso: ho cercato di scongiurare l’effetto pruderie, concentrandomi sui moventi, sulle risoluzioni.

Molto spesso sono le storie a cercare l’autore. Qual è quella a cui è più legato personalmente?

Il matricidio firmato da Nadia Frigerio con il compagno, in una Verona degli anni Novanta che pare Babele, con loro che conciano la madre come una prostituta, dopo averla ammazzata, e la smollano per strada. Mi sento come ne La scelta di Sophie. Sono tutte storie cariche di significato, è difficile sceglierne una sola. Poi Patrizia Reggiani, la Gucci, mandante dell’omicidio del marito. È una personalità complessa, che riserva colpi di scena continui, instancabile dal punto di vista delle esperienze e degli aneddoti. Sarà sempre un passo oltre a tutto quello che – nel bene o nel male – si racconta di lei, dai podcast ai film, passando per i libri. Reggiani è una vera artista, un’artista completa.

C’è un caso che ha evitato di includere perché troppo dibattuto o perché ormai aveva consumato la sua carica evocativa?

No, non per il libro almeno. È una cosa che si verifica di più quando in redazione pensiamo a cosa scrivere per il podcast. Anche la storia più inflazionata puoi renderla interessante, se, come accade con Demoni, hai la possibilità di svilupparne il potenziale narrativo. Io non sono un criminologo, né uno psicologo, ma una persona che scrive; quindi mi seduce l’idea di poter restituire linfa a vicende che magari sui media hanno esaurito la loro carica. Penso al delitto di Sarah Scazzi, un kolossal dell’omicidio, il Ben-Hur dei drammi familiari, che è al centro di un episodio realizzato di circa un anno fa. Si è detto di tutto, e allora ho deciso di partire dai luoghi, da Avetrana, l’ho descritta come una specie di Melrose Place delle Murge. Non è facile, ma è stimolante.

Le storie che racconta hanno un linguaggio letterario che si discosta molto dalla narrativa di genere. Critica – in modo divertito – i romanzi scadenti che usano “lago di sangue” oppure certe vecchie metafore giornalistiche. In questi casi, in che modo è possibile rinnovare un linguaggio?

Il linguaggio non si rinnova, si trovano al massimo modi un po’ meno banali di esprimere concetti. Nel libro uso termini ed espressioni fortemente connessi alla contemporaneità, tipo “skillato” o “LTR Oriented”, affiancandoli a vocaboli più aulici. L’ho trovato un metodo più interessante rispetto a formule classiche e un po’ logore, ma forse pecco di superbia. Io non posso raccontare il massacro di Desirée Piovanelli e usare espressioni come «la polizia brancola nel buio» per descrivere l’attesa durante le indagini. Lo trovo sciatto. Anche i morti hanno dignità letteraria, perché dovrei essere io a negarla?

Il sottotitolo ricorda una lampante e paurosa verità: «i mostri sono tra noi». Ma è una verità accettata se ci stupiamo sempre del male che arriva da chi è prossimo a noi, da chi ci illudiamo di conoscere?

Nessuno accetterà mai questa verità. Forse perché in molti si sono trascinati dall’infanzia la mistica della fiducia, per cui cadono dal pero ogni volta che il male lo commette il proprio vicino di casa. Eppure, i greci ce lo insegnano nelle tragedie e nel mito, gli antichi romani nella loro storia: spesso a farci la pelle è chi crediamo essere vicino. I mostri sono tra noi perché il male ha la singolare abitudine a essere una cosa assolutamente normale. Diretta. Immediata. Non ti manda una raccomandata prima, non è un’assemblea di condominio. Forse è questo che affascina, del crimine. Solo che siamo un po’ tutti egoisti: lo troviamo sexy e morboso, ma solo se capita agli altri.

In questi quattordici racconti ci immedesimiamo sempre nei sentimenti delle vittime. Nella loro paura, nell’immaginare la loro consapevolezza che arriva e annuncia la morte. Perché non pensiamo quasi mai alla possibilità di essere noi, invece, i mostri?

Perché viviamo in un’epoca di narcisismo patologico in cui abbiamo deciso di diventare palinsesti di noi stessi, di essere più candidi di un saio. Poi però un giorno hai un raptus, uccidi tuo cugino e tutti parlano di effetto sorpresa. Quando scrivi un libro di questo tipo non ti puoi limitare a descrivere i fatti, ma devi diventare i carnefici e, soprattutto, le vittime. Non è empatia: non mi interessa mettermi nei panni dell’altro, ci sarebbe troppo di me. Io volevo diventare loro. È stato devastante, e non potevo nemmeno indugiare nella pietà, sennò avrei perso il controllo dei e sui personaggi.

Nei protagonisti di queste storie non c’è il progetto di un domani. Sono tutti ostaggio dei loro desideri marciti, delle loro follie, del loro senso di possessione. È ragionamento sempre fallace, ma ci si prova: da dove arriva il male?

È impossibile rispondere a questa domanda: Hannah Arendt ti risponde una cosa, Jean-Pierre Faye un’altra ancora, Cenerentola ti dirà che sono le sorellastre. È straordinario, perché non c’è un ragionamento unico. Esiste il male come esiste l’aria. Mauro Antonello massacra la ex moglie e tutti gli affetti più cari di lei solo perché reputa che la stiano proteggendo troppo, che lei stia vivendo troppo bene rispetto a quanto meriterebbe dopo che si sono lasciati. La cittadina di Giarre, che conosco bene perché sono di Catania, nel 1980 sta praticamente in silenzio quando due ragazzi gay che si amano vengono trovati morti ai piedi di un pino marittimo. È chiaro che li ha uccisi qualcuno ed è palese quanto scricchioli la colpevolezza di un dodicenne che viene accusato dell’omicidio perché è troppo piccolo e non può essere incriminato. Sono storie in cui il male esplode vicino alle vittime, ma arriva da traiettorie troppo diverse. Si nota un denominatore comune che non sia l’obitorio?

La parola mostro non sempre ha un’accezione negativa: nell’antichità erano figure prodigiose, miracolose. C’è un mostro nei confronti del quale prova maggiore compassione, nonostante tutto?

No, la compassione è un sentimento che non sento mio. Non sono un padre confessore, non ci sono estreme unzioni, non sono neanche un giudice. Ho solo avuto la grande fortuna di averli incontrati tra le pagine di un libro o di un quotidiano d’archivio, quindi al massimo posso provare fascinazione verso alcuni di loro, pur mantenendo la lucidità su quello che hanno commesso. Ma credo che sia una cosa molto comune, lo spiega il successo del podcast, l’affetto del pubblico verso i programmi di Franca Leosini o verso i libri di Carlo Lucarelli. Molte di queste storie sono entrate nel costume, nel linguaggio quotidiano. A volte coi miei amici ci diciamo: «Quanti misteri, sembri Pina Auriemma!», oppure uno di noi si comporta in maniera ficcante e individualista parte il: «Stasera sei la Reggiani», e il sempreverde: «ma perché parli come lo zio Michele?», quando magari qualcuno sbaglia un congiuntivo. È scorretto, ingiusto, immorale, ma chi nega oggi di aver mai fatto ironia su un delitto “di peso” è ipocrita. Perché il crimine è naturalezza, e sono – purtroppo – storie di tutti i giorni, per citare Riccardo Fogli a caso.

Scrive: «La risposta non esiste. Oggi Luisella ha pagato il suo debito e vive la sua vita. Se quel terrore di sentirsi inadeguata come sui banchi di scuola resiste ancora, non è affare pubblico indagarlo». Anche per i mostri è giusto dimostrare rispetto, tatto, misura, non depredando aspetti troppo privati della loro vita?

Rispetto, non so. Certo, infierire sul privato delle persone, soprattutto quando pagano pegno alla giustizia, è vago sciacallaggio. La letteratura, però, è anche questo, è superare i limiti delle leggi. È il motivo per cui siamo qui a parlare di questi personaggi. A volte mi rendo conto che, forse, è il caso di riconsegnarli all’anonimato. Solo che alcuni sono così potenti che è impossibile lasciarli andare, pure quando hanno finito di pagare il conto nelle galere. Ma questa è la cosa strana: quando la giustizia fa il suo corso, arriva la narrazione. E cambia tutto.

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