“Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi” di Marco D’Eramo: c’è ancora spazio per un “ottimismo della ragione”

by redazione

Marco D’Eramo ha una formazione eclettica. Laureato in Fisica, ha poi studiato sociologia con il grande sociologo francese Pierre Bourdieu presso l’École Pratique d’Hautes Études di Parigi. Pubblicista e giornalista, ha collaborato per una serie di testate e riviste prestigiose, sempre di orientamento spiccatamente “progressista”. Ciascuna di queste esperienze formative e professionali si riverbera proficuamente – ci sembra – sul presente lavoro.

La dimestichezza con le “scienze dure”, in quanto fisico, gli torna utile per smontare agevolmente la tendenza dei fautori dell’ideologia neoliberale (in breve, “neolib”) ad applicare metafore fisiche o biologiche al fine di giustificare e legittimare come ineluttabile il “darwinismo sociale” (che è la teoria sottesa a tutte le teorie della competizione e della concorrenza come leggi naturali del mercato), evidenziando l’improponibilità di un accostamento metodologico tra scienze della natura e scienze sociali (in tal senso, si vedano, ad esempio, i diversi passaggi a commento della nota formula TINA, There Is No Alternative – alle leggi del mercato – coniata da Margaret Thatcher).

L’approccio metodologico all’analisi dei fenomeni sociali da lui seguito, evidenzia invece l’impronta della scuola di Bourdieu. Basti considerare l’attenzione attribuita a quegli elementi (la sfera delle idee, del simbolico, ecc.) che l’analisi marxista più tradizionale e lo strutturalismo consideravano in modo riduttivo come mere “sovrastrutture”, e cioè “prodotti” o “proiezioni” dei fatti materiali, e che invece per Bourdieu (ma già molto prima per Antonio Gramsci, con le riflessioni, al centro del suo pensiero, in tema di “egemonia culturale”) costituiscono fattori potentemente “performanti” della realtà1. Tale tipo di approccio emerge dal costante riferimento, in varie parti del testo, al refrain che “le idee sono armi” (citazione da William Simon e titolo del secondo capitolo), ed è insito anche nella severa critica rivolta dall’Autore a quel “mondo progressista” che alla guerra dei potenti avrebbe dovuto opporsi, e che invece – questa la tesi di fondo sostenuta nel volume – ha consentito ch’essa fosse combattuta «senza che noi ce ne accorgessimo» (p. 10), perché tendiamo ad attribuire i cambiamenti sociali «a megatrends, alla globalizzazione, alla nuova rivoluzione industriale dei computer, a fenomeni oggettivi e statistici» (p. 11), sottostimando invece le “battaglie ideologiche” intraprese dagli avversari.

Per finire con le considerazioni di carattere generale, va sottolineato come la lunga esperienza da giornalista consenta all’Autore di affrontare i diversi temi trattati allo stesso tempo con il rigore, l’approfondimento e la ricchezza di dati e documenti citati, tipici dello studioso (anche se non possiamo fare a meno di rimarcare alcune lacune sul piano delle fonti bibliografiche2), coniugandoli con uno stile espositivo godibilissimo, che avvince e appassiona. E, trattandosi, di narrare una guerra, si ha quasi l’impressione di leggere una sorta di “poema epico”, di cui sono presenti tutti i tipici ingredienti, a partire dalla descrizione degli eserciti in campo e delle loro strategie. Anzi, visto che parliamo di una “guerra invisibile”, condotta e vinta, come si diceva, senza che quasi i suoi oppositori se ne accorgessero3, la descrizione riguarda un solo esercito in campo, quello dei “potenti”, contrapposto alle sue vittime.

  1. L’esercito dei “potenti”

Il “quartier generale” di questo esercito non poteva trovarsi che nel centro dell’“Impero” (per dirla con Hardt e Negri4), gli Stati Uniti (Paese che, per inciso, D’Eramo mostra di conoscere a fondo, avendoci peraltro dedicato precedenti pubblicazioni), essendo formato da alcune famiglie storiche di miliardari conservatori e benpensanti di questo Paese, e soprattutto del Midwest, che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, decidono di sferrare una grande offensiva per affermare nel mondo l’egemonia dell’ideologia neoliberale contro le politiche keynesiane affermatesi nel secondo dopoguerra e le conquiste dei movimenti operai e libertari.

Le “truppe scelte” sono invece costituite da una pletora di “benefiche” fondazioni, create ad hoc o semplicemente (ma lautamente) finanziate (per giunta “esentasse”, vista la progressiva riduzione e poi la totale eliminazione delle aliquote fiscali ad esse applicabili garantite dalle compiacenti autorità legislative di turno). Tali fondazioni, concepite come potenti think thanks “da combattimento”, incaricati di diffondere il verbo neolib nelle sue diverse varianti (Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, la Scuola di Chicago, la Law and Economics – l’analisi economica del diritto – di Richard Posner, ecc.), grazie alle ingenti risorse finanziarie a loro disposizione, conquistano gradualmente una serie di “postazioni strategiche” date da prestigiose sedi universitarie, negli Stati Uniti e all’estero (definite nel volume, con un riuscito gioco di parole, come “campus di battaglia” : p. 50 ss.), che peraltro alimentano ulteriormente le loro fortune e la loro influenza, riuscendo costantemente a fare incetta di premi Nobel (a partire, già nella seconda metà degli anni settanta, dallo stesso Hayek e da Milton Friedman).

Continuando con la metafora della guerra, nell’esercito dei vincitori, accanto a quello “ideologico”, non poteva poi certo mancare il “braccio politico”, “arruolato” attraverso la pressione delle lobbies economiche sui membri degli organi legislativi nazionali e federali statunitensi, pressioni che, di frequente, si sostanziano in vere e proprie pratiche corruttive, peraltro ideologicamente giustificate dai fautori dell’analisi economica del diritto in nome dei principi di razionalità economica ad essi cari, tanto da essere perfino legalizzate.

Ma non è questo l’unico caso di applicazione, diciamo eufemisticamente, “discutibile” di tali principi. Sempre in nome della razionalità economica propugnata dalla scuola della Law and Economics, si è arrivati a proporre (da parte di Richard Posner in persona, in un articolo del 1978 pubblicato insieme a Elisabeth Landes) un free baby market: un libero mercato delle adozioni (la libera compravendita dei bambini!), per ovviare, grazie ad una “salutare” deregulation (considerata – va da sé – come «il sistema più efficiente di allocare le risorse, anche se si tratta di neonati»: p. 66), alle storture di un regime di adozione pubblico, regolato negli USA da agenzie statali, che genererebbe una penuria di bambini da adottare, facendo lievitare i costi e i tempi a tal fine necessari. Con un vantaggio in più: la libera compravendita dei bambini offrirebbe incentivi anche sul lato dell’“offerta”, invogliando molti genitori a “produrre” e vendere neonati in cambio di adeguati compensi, e contribuirebbe quindi a ridurre il numero di aborti, venendo così incontro alle istanze dei cristiani conservatori, ferocemente antiabortisti (e, vedremo, spesso grandi alleati dei neolib). Beninteso, qui si parla solo dei bambini sani e bianchi, ché di bambini non bianchi e “handicappati” non c’è certo penuria! (Le inevitabili accuse di razzismo mosse contro questa proposta verranno peraltro respinte con «spudorato candore: non bisogna far pagare troppo le coppie bianche che vogliono adottare un bimbo bianco!»: p. 68).

Un ulteriore paradosso si registra poi sul piano delle “alleanze esterne” dell’esercito in parola, in relazione all’appoggio politico, militare ed economico fornito, specie nel continente americano, a spietati dittatori del calibro, ad esempio, di Pinochet in Cile, considerato un “paladino” della causa neolib, decantato come un modello da imitare nell’applicazione delle ricette economiche del libero mercato. Il paradosso è veramente incredibile se si pensa come per Hayek il maggior pericolo ricollegabile alle politiche economiche interventistiche di stampo keynesiano era proprio ch’esse potessero aprire la strada a regimi dittatoriali o quantomeno ad ambienti illiberali! Ma a questo punto – osserva D’Eramo (p. 38) – si è evidentemente determinata una irrimediabile frattura tra il liberismo del neoliberismo (la concezione economica del liberalismo) e il liberalismo politico, inscindibilmente legato alla democrazia. E questo dato – aggiunge l’Autore (p. 54) – si colloca nell’alveo di una stagione di «opposizioni incompatibili» prodotte dal pensiero neolib che coinvolge tutta una serie di valori, la cui importanza, sempre in nome della utilità economica, viene, all’occorrenza, disinvoltamente relativizzata: a partire, appunto, dalla democrazia (il cui “eccesso”, nei Paesi occidentali, è considerato foriero di ingovernabilità!), passando per il diritto e l’amministrazione della giustizia (da rendere funzionale al miglioramento delle condizioni del mercato), per arrivare alla giustizia sociale (l’equità è incompatibile con l’efficienza, l’iniquità un “prezzo del progresso”, “la giustizia sociale è una frase vuota”: Hayek), e dunque allo Stato sociale e ai pubblici servizi (da smantellare a favore dei privati e del libero mercato). Ma attenzione, lo Stato va sì reso “frugale”, «ma in realtà, a nessun epigono dei Chicago Boys passa per la mente di distruggere lo Stato (non per nulla ammiravano il generale Pinochet»: p. 98), perché, al momento opportuno, esso serve per accollarsi il compito e i costi del superamento delle crisi, come è avvenuto con la crisi finanziaria e poi economica iniziata nel 2008, e poi con la crisi pandemica da Covid-19 e quella socio-economica ad essa collegata. (Insomma, quel che serve è uno Stato funzionale alle corporation, …uno Stato “privato”!).

Per completare la rassegna delle forze mobilitate dalla (contro)rivoluzione neoliberista, non va sottovalutato, infine, il ruolo svolto dalla componente religiosa, costituita (un cenno è stato già fatto con riferimento al mercato delle adozioni) da chiese e sette cristiane conservatrici. Nel capitolo dedicato al tema (l’ultimo, dal titolo Post Scriptum. In nome del padre, del figlio e del conto corrente), D’Eramo affronta quello che presenta inizialmente come un vero mistero, e cioè il motivo per cui la controrivoluzione reazionaria, almeno nel continente americano, «si è alleata, intrecciata e fusa con il cristianesimo più conservatore», mettendo insieme, quindi, “il diavolo e l’acqua santa”: chi si fa punto di prescindere dalla morale come metodo e come prospettiva, deificando l’egoismo personale, e non arretra nemmeno di fronte alla prospettiva della schiavitù o della compravendita dei bambini, e chi dovrebbe praticare la povertà e privilegiare “l’ama il prossimo tuo come te stesso”. Diverse, e assai interessanti, sono le risposte fornite a tele rebus. La prima, riprendendo Polibio e Machiavelli, è che semplicemente i neoliberisti la religione la usano come instrumentum regni, come strumento di governo e di stabilizzazione sociale. Ma questa “cinica” spiegazione è solo parziale, e in fin dei conti troppo elogiativa della capacità di calcolo dei “potenti”, che, invece, finiscono spesso per credere alle “superstizioni” che pensano di sfruttare. Già nel 1905 Max Weber ci spiegava (anch’egli però stupendosene!) le ragioni più profonde che possono portare il cristianesimo (specie nella versione protestante) ad allearsi con il capitalismo, forgiandone significativamente l’etica. Ma se numerosissimi predicatori americani, tra il XIX e il XX secolo, avvertono sempre di più il bisogno di allearsi apertamente con il grande capitale, arrivando addirittura a prescrivere il dovere di “diventar ricco” come un precetto religioso per il buon cristiano, scagliandosi contro chi osa prendersela con l’“oppressive rich”, è perché si sentono ad esso uniti da un avversario comune, e cioè il socialismo ateo e anticapitalista, il movimento operaio, il sindacato. Allo stesso tempo, se i grandi capitalisti sviluppano una passione sviscerata per il fondamentalismo cristiano, è perché «nessuna società può basarsi su una razionalità che è espressamente amorale al livello sia dei fini che dei mezzi…, su un progetto che svuota il mondo di significato, che svaluta e sradica la vita e apertamente sfrutta il desiderio». «Tanto più il mercato e la concorrenza sono amorali e asociali, tanto più è necessario un collante sociale extraeconomico» (pp. 216-217). Fino ad arrivare a considerare come Dio lo stesso capitalismo e lo stesso mercato (fenomeno percepito già un secolo fa da Walter Benjamin in Capitalismo come religione).

  1. Le armi dei “potenti”

Procedendo ancora con la metafora militare, dopo le “truppe”, l’Autore passa poi in rassegna le “armi in dotazione” dell’esercito dei “potenti”.

Un’arma molto efficace è data dal debito. Quello privato, che, grazie, in particolare, al credito al consumo e ai prestiti bancari per gli studenti, tende a sostituire i diritti sociali con il diritto di accesso al credito (il diritto di contrarre debiti!), finendo però per schiacciare e incatenare ogni individuo; quello pubblico, che diventa uno strumento strategico di geopolitica, consentendo una pressione sugli Stati per piegarli alla “fedeltà” ai dogmi neolib nell’attuazione delle proprie politiche economiche (ciò specie, in caso di richieste di prestiti alle istituzioni finanziarie internazionali, attraverso quel “ricettario” di tagli ai servizi sociali, all’istruzione, alla sanità, alle pensioni, al numero di dipendenti pubblici e ai relativi stipendi, che prende il nome di “condizionalità”), premiandoli o punendoli in base al loro comportamento (ricordiamo che in tedesco la parola Schuld significa allo stesso tempo “debito” e “colpa”!). E nel funzionamento di questo meccanismo di premio e punizione, giocano un ruolo essenziale le discusse agenzie di rating, società private in grado di esercitare sugli Stati una vera e propria “violenza simbolica” del dominio (per dirla di nuovo con Pierre Bourdieu: p. 141), degradando il rispettivo debito pubblico ed esponendoli così alle “sanzioni” dei mercati.

Tuttavia, «del tutto opposto è lo status del debito nel Paese dominante, cioè gli Stati Uniti». Nessuno, infatti, è in grado di andare a bussare a Washington per farsi restituire i soldi: perché non ha la forza, militare e politica, d’imporre il rimborso; perché, se gli Stati Uniti dovessero stringere la cintura per rimborsare il debito, l’economia mondiale crollerebbe. «Il debito statunitense si configura quindi come un tributo (sotto altro nome) che l’impero esige dai suoi sudditi» (pp. 141-142).

Un’altra arma utilizzata dai potenti per affermare il proprio dominio, è data dalle moderne tecnologie (la controrivoluzione neoliberale si salda con la rivoluzione tecnologica!), che oggi, attraverso la Rete, l’intelligenza artificiale e Big Data, assicurano al “capitalismo della sorveglianza” un controllo diffuso, ubiquo, capillare e impersonale su tutti noi, accompagnato dalla sistematica “mietitura” delle immani risorse provenienti dai dati che riguardano le nostre vite e i nostri comportamenti e che vanno ad alimentare il “mercato dei futures comportamentali” (secondo le espressioni coniate da Shoshana Zuboff, riportate a p. 1225), basato sulla capacità di delineare schemi di previsione dei comportamenti e infine di plasmarli.

  1. Gli effetti della guerra

Gli ultimi capitoli del volume (a parte il Post Scriptum finale, di cui si è già detto) sono dedicati al bilancio degli effetti della controrivoluzione neoliberale sul mondo e sulla società.

Oltre a quelli già direttamente ricavabili dalla trattazione precedente (smantellamento dello Stato sociale, crescita delle disuguaglianze, arretramento dei diritti, contrazione delle libertà e impoverimento di strati sociali sempre più ampi, anche nei Paesi più ricchi), l’Autore mette in particolare l’accento su un tipo di effetti che riguardano la nostra cultura e le nostre stesse menti, cogliendo ancora una volta, nella realtà che osserva, degli aspetti paradossali: in nome di una battaglia condotta all’insegna della libertà e della lotta al totalitarismo, il neoliberalismo non solo ci sottopone ad una sorveglianza continua e al guinzaglio del debito, ma ci ha “privatizzato anche il cervello”, portando ciascuno di noi a interiorizzare i dogmi neoliberisti e facendoci diventare tutti partite IVA, imprenditori di noi stessi, gestori del nostro “capitale umano”, secondo le leggi di mercato.

Ma il peggio, quanto a “macerie” lasciate dalla guerra dei potenti, è descritto in quello che l’Autore definisce Il festival delle conseguenze non volute (p. 150 ss.), sinteticamente riassumibili con un unico concetto: la cancellazione del futuro. Tale concetto non riguarda solo le catastrofi ambientali e l’avvenire delle specie viventi, ma molto di più: il crollo della natalità nei Paesi avanzati, le condizioni di lavoro, sempre più precarie e simili a forme di schiavitù (quelle, ad esempio, imposte da Amazon e Uber) e, più in generale, l’abolizione di ogni idea e progetto di progresso, spariti pressoché ovunque dal discorso pubblico e politico, mentre si accetta di fatto una prospettiva nichilistica di autodistruzione che, sotto l’assillo dell’immediata realizzazione del profitto, non pare potersi fermare.

  1. Conclusioni: che fare?

Questo impietoso bilancio potrebbe avere l’effetto di scoraggiare ogni velleità di resistenza e di controffensiva, lasciando spazio solo alla rassegnazione o alla complice accettazione di questa realtà, come del resto – denuncia l’Autore – spesso è effettivamente avvenuto, e avviene, anche a sinistra: una sinistra che finisce troppo di frequente per offrire le stesse ricette economico-sociali dei fautori del pensiero neolib, contribuendo così a renderlo “pensiero unico”.

Dobbiamo dunque rinunciare ad ogni speranza di cambiamento? Non è certo questa la conclusione cui giunge D’Amico, che, invece, a questo punto evidenzia appieno l’intento (anche) “militante” del suo lavoro, passando in rassegna tutta una serie di “ragioni per agire” (e qui cogliamo di nuovo un’eco del maestro Pierre Bourdieu, che già qualche decennio fa lanciò un appello per una iniziativa internazionale volta a contrastare l’offensiva ideologica neoliberale6, che prese appunto il nome di Raisons d’agir, titolo, peraltro, attribuito anche ad una casa editrice, con sede a Parigi, promossa dal filosofo-sociologo francese). Né si tratta di una questione di ottimismo della volontà contrapposto al pessimismo della ragione, ché «se non c’è ottimismo della ragione (come quello di Marx, per intenderci) allora tanto vale alzare bandiera bianca e sperare nella (improbabile) clemenza dei vincitori» (p. 191). Certo, il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento, e non sarà dunque facile il compito di (re)agire in sede politica. Ma alla politica D’Eramo, oltre ai tantissimi spunti di riflessione e stimoli offerti nel corso di tutto il volume, ha qualche consiglio finale da rivolgere (nei capitoli 13 e 14): ricordiamoci che nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto, proprio come noi ora, ma poi, per affermare la propria egemonia, hanno imparato dalle lotte operaie, hanno studiato Gramsci e Lenin. Forse è arrivato il momento di fare lo stesso e di (re)imparare dagli avversari quello che hanno imparato da noi. E forse – aggiungiamo – questo è pure un momento favorevole per avviare una controffensiva in tal senso. Basti considerare, da una parte, il recente cambio di rotta rispetto alle precedenti politiche di austerity operato dall’Unione Europea (si spera in modo non solo contingente) con i recenti e noti provvedimenti di contrasto alla pandemia da Covid-19 e alla conseguente crisi socio-economica; dall’altra, gli incoraggianti segnali provenienti dalla maggiore potenza economica occidentale (da cui la “guerra dei potenti” era partita), dopo il quadriennio populista e sovranista di Trump e l’avvento dell’era Biden, che vede il nuovo Presidente USA ergersi a paladino di politiche economiche neokeneysiane, della conservazione dell’ambiente, della tutela dei diritti umani e dei “beni pubblici globali” (con la proposta di liberalizzazione dei brevetti sui vaccini anti-covid), e addirittura a leader della sinistra mondiale, «più a sinistra di tutti i leader europei della medesima inclinazione» (Mario Giro, La sinistra europea sta imparando da Joe Biden, quotidiano Domani, 29 maggio).

Qualche motivo in più, dunque, per credere, insieme a D’Eramo (p. 191), o almeno per sperare, che ci sia ancora spazio per un “ottimismo della ragione”.

1 Per chi volesse rapidamente familiarizzare con questo aspetto della metodologia di Bourdieu, senza imbarcarsi nella lettura diretta delle sue numerose opere, si consiglia il volumetto a cura di Marco Santoro, Pierre Bourdieu. Forme di capitale, Roma, Armando Editore, 2015.

2 In vero, nei decenni scorsi, in parallelo con la “marcia trionfale” della controrivoluzione neoliberale, si è sviluppato un cospicuo filone di importanti opere fortemente critiche nei confronti delle politiche neoliberiste, che non sempre vengono considerate da D’Eramo. Il che sorprende in alcuni particolari casi in cui le tematiche trattate, e persino i titoli di tali opere, sono parecchio collimanti con i contenuti di questo volume. Non troviamo ad esempio alcun riferimento al sociologo Luciano Gallino, né al volume con cui egli ha coniato la felice e nota definizione di “Finanzcapitalismo” (Finanzcapitalismo. La società del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2013), né al precedente La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012. Analogamente, sul tema, fondamentale, delle crescenti disuguaglianze sociali indotte dal neoliberismo, c’è tanto Piketty, ma non sono menzionati il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz e il suo celeberrimo Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, 2013 (nella versione italiana).

3 Le considerazioni svolte alla nota precedente circa l’esistenza di una consistente letteratura critica nei confronti del neoliberismo possono però servire a relativizzare in parte questa affermazione (almeno per quanto riguarda il mondo della cultura, se non quello della politica, cui l’Autore principalmente si rivolge).

Aldo Ligustro

Accademico e Presidente della Fondazione dei Monti Uniti

4 Michael Hardt, Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, BUR, 2003.

5 Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, London, 2019, p. 8.

6 Si veda in breve Pierre Bourdieu, Contre-feux. Propos pour servir à la résistence contre l’invasion néo-libérale , Paris, Liber-Raisons d’agir, 1998.

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