“Dove non mi hai portata” di Maria Grazia Calandrone e il ciclo delle sofferenze dell’abbandono

by Giorgia Ruggiero

In Dove non mi hai portata Maria Grazia Calandrone ricerca l’appianamento all’assillo che più la riguarda: il suo abbandono. Tenta – riuscendo con uno stile poetico e straordinario – di ricostruire la vicenda di cronaca che più le sta a cuore, per una ragione tangibile: è la sua.

Lucia Galante è figlia del suo tempo. Figlio del proprio tempo è anche l’uomo che l’ha sposata, Luigi Greco. Ma essere figli del proprio tempo, nel tempo in cui l’adulterio è ancora tra le leggi italiane e il matrimonio è un comodo affare piuttosto che una scelta di cuore, è prevedibilmente un danno per Lucia, che è una donna – e questo basta a condannarla – con l’impaziente desiderio di studiare, di amare, di prendersi la vita come poche donne riescono a fare nella sua epoca. Più di tutto Lucia, che è tutta cuore, ha una speranza che somma e pure supera tutti i suoi desideri: vuole essere una donna libera. Perché da tutta la sua vita si addormenta nell’infelicità, accanto a un uomo che quando si ricorda la prende a legnate.

Infatti, associato a una personalità così ordinaria ai giorni nostri eppure così punibile – persino dalla legge – in quegli anni, c’è naturalmente un uomo violento, frutto delle significative pieghe storiche e sociali del Novecento (alimentate dalla realtà di un piccolo paesino dove le voci corrono veloci) del tutto patriarcali.

Eppure la vita sembra regalare a Lucia l’occasione per uscire dal quadro così chiaro del suo patimento, per diventare la libertà che sognava, per prendere la forma dell’indipendenza e dell’emancipazione così impossibile su cui aveva, di fatti, solo fantasticato. L’occasione si chiama Giuseppe, un uomo del tutto diverso dagli esempi che avevano solcato sua vita: è buono, la ama. E lei ama lui, ed è una sorpresa, perché è così come dovrebbe essere.

Dunque la vita dona le dona la somma di quei desideri, ma siccome non esiste vita senza ferita amarsi sarà un marchio vergognoso. Dopo il trasferimento dei due nelle periferie di Milano,  Lucia sarà denunciata per abbandono del tetto coniugale e relazione adulterina. È punita dallo Stato come se non fosse già abbastanza l’opinione pubblica e le voci che si rincorrono a Palata, il paese molisano in cui sono vissuti che li ripudia perché clandestini nel loro amore.

Nel 1964 Lucia e Giuseppe aspettano una bambina. Maria Grazia, che scrive, nasce da quel disperato amore che, però, è l’unica cosa che resta. Mancano i soldi, il lavoro, persino una reputazione. E l’amore, in un contesto simile,  per quanto forte sia non è in grado di far stare in piedi nemmeno – soprattutto – il futuro di un figlio. La bimba sarà abbandonata ad otto mesi, in un prato di Villa Borghese, nella capitale.

Oltre ogni ragionevole dubbio, agli occhi di un genitore è meglio morire che vivere dopo aver dato via il prolungamento di se stesso. È proprio per questo che Lucia e Giuseppe compiono l’estremo, finale e inevitabile gesto. L’ultimo, dopo quello più colmo d’amore che avessero mai potuto fare. Il loro è un suicidio congiunto nelle acque del Tevere, vittime degli errori di un’intera società, dei lasciti delle dittature e del pregiudizio insopportabile intrinseco in tutti gli esseri umani.

Maria Grazia Calandrone, che è quella bambina, scrive Dove non mi hai portata per sì, farci entrare nel fatto di cronaca che sconvolse quegli anni, ma anche per chiudere il cerchio delle sofferenze della madre biologica che tanto soffrì per amarla.

Tutte le cose in cui Lucia non l’ha portata sono scritte e donate con estrema cura e precisione nelle pagine meravigliose di un libro non per caso finito tra i finalisti dell’ultima edizione del Premio Strega.

Abbandonandola, Lucia non l’ha portata nella sua stessa morte, insegnandole a posteriori  la fiducia per gli altri e il coraggio, il disperato coraggio di amare.

La lascia libera di abbandonarla, tornando sui posti in cui i fatti si consumarono per dar forma al suo, al loro ritratto.

E così, Lucia può riposare. Ora, il cerchio si è chiuso:

Ogni cosa che ho visto di te,

te la restituisco amata.

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