Dove sei, cuore? La storia di Chiara Valerio

by Felice Sblendorio

“Una mattina, dopo sonni inquieti, Andrea Dileva si era svegliato nel suo letto, senza il cuore”: basta una frase semplice, asciutta, per rendere un incipit fulmineo, spiazzante. È il caso de “Il cuore non si vede” (Einaudi, 160 pagine, euro 17,50), il nuovo romanzo di Chiara Valerio, scrittrice con un passato da matematica e attualmente responsabile della narrativa italiana della casa editrice Marsilio e voce di Rai Radio3.

In un romanzo che sfiora i sottili limiti che separano l’irrealtà dalla realtà, Chiara Valerio racconta con uno stile sincopato e “chirurgico” la mutazione umana del professor Andrea Dileva, un quarantenne borghese cresciuto bene – perché nessuno quando era bambino aveva posato su di lui uno sguardo colmo di aspettative – che scompare assieme ai suoi organi sotto gli occhi di tre figure femminili che, distrattamente, affollano la sua vita. Ma di cosa siamo fatti, allora, se Dileva sopravvive a se stesso, all’anatomia mancante e alle cose che uccidono? Forse di legami, dell’identità sociale, di somme di relazioni che sono culturali e non biologiche, della cura degli altri che ci salva: sempre. In un caleidoscopio scomposto di sentimenti, dove l’angoscia della modernità entra con forza a interrogare i protagonisti sull’identità, sui corpi intrecciati e sui sentimenti che si rivelano solo in parte, l’autrice tratteggia la paura e l’inquietudine della nostra dissoluzione, della nostra scomparsa. Un libro fatto di parole esatte per non avere paura, di amore che scotta, di mitologia per sfuggire dai limiti del reale e di fantasmi, che sono – come scrive Valerio – nell’occhio di chi guarda, come tutto. Sul cuore che scompare del professor Andrea Dileva, bonculture ha intervistato Chiara Valerio.

Il suo romanzo parte da un’assenza: una mattina, un giovane professore di greco si sveglia solo con l’ombra del suo cuore. L’irrealtà irrompe in un magma narrativo che è fin troppo reale, contemporaneo, sociale: è così?

L’intenzione era scrivere un romanzo realista che partisse da un gesto di irrealismo. Così ho ricominciato da Kafka e dal suo Gregor Samsa, solo che la metamorfosi di Andrea Dileva non si vede subito, e pur non essendo interiore o metaforica, è una metamorfosi nascosta, interna.

Ma come si fa a vivere con l’assenza del proprio cuore?

Si può vivere senza il proprio cuore, pensi ai trapianti, e l’idea, portata a patologia è che si possa vivere anche con l’assenza del cuore. Che il cuore sia una funzione che può essere assolta anche da altro. Insomma, è un gesto di irrealismo che parte dalla constatazione che ci sono esseri umani che sopravvivono senza il proprio cuore.

Gli organi che scompaiono, forse, raccontano molto delle relazioni che intercorrono fra Andrea, Laura, Carla e Angelica. Sono le persone e i sentimenti che mantengono in vita e proteggono Dileva da queste assenze organiche?

Sarebbe bello se così fosse e in qualche modo il romanzo racconta di quanto, per ciascuno di noi, la biografia sia importante quanto o più importante, addirittura, della biologia. E la nostra biografia è una somma di relazioni con cose e persone.

Andrea preoccupandosi per il suo futuro cerca una rappresentazione simbolica di sé nella mitologia greca, quindi nell’immobilismo del passato: cosa troverà di simile a lui?

Non troverà niente. E visto che le neuroscienze ci dicono che senza memoria del passato non c’è immaginazione del futuro, Andrea si sente sperduto. E per la prima volta nella vita deve scegliere cosa fare.

Parla di scelta, una cosa che per Andrea – bigamo dichiarato – è una cosa difficile da attuare nel suo modo di vivere. Queste decisioni in aggiunta per non scegliere mai a cosa portano?

È un uomo che non sceglie e infatti accumula, amori, nozioni, sentimenti. Tende a tenere insieme le cose invece di lasciarle andare. Sembra interessato più alla cura che alla passione, ma forse non lo sa nemmeno lui. Io volevo che fosse un uomo indeciso e che di questa sua fascinosa indecisione, gli altri, le altre, si nutrissero. Le donne che gli stanno intorno sono costrette a essere più decisioniste di quanto forse vorrebbero perché Andrea non decide niente.

Ma alla fine chi è Andrea nel confronto con le tre donne? Uno specchio deformato dalle illusioni altrui?

No, è un uomo che pensa di esserci, e che c’è. Ed è anche, come tutti noi, e come lei dice, lo specchio deformato dalle illusioni altrui. Andrea stesso d’altronde deforma l’immagine delle persone che gli stanno accanto, l’unico che sfugge, che lo vede o che si fa vedere mi pare sia Simone, il bambino di Carla, che nella prepotenza dell’infanzia dichiara sempre, con tutti i modi e i gesti, di volerlo tutto per sé.

Le parole non dette in questo romanzo, molto spesso, conservano l’essenza più pura dei sentimenti indicibili. Lei scrive: “Come se dire tutto fosse sempre abbastanza, poveri noi”. Cosa c’è nel vuoto delle parole mancate dei suoi protagonisti?

Mi pare abbiano il problema inverso, dicono troppo, inseguono per acribia nomenclativa o per esigenze sentimentali, una chiarezza che non sono in grado di sostenere. Per questo mi sono simpatici, li capisco, mi ci riconosco, non tutti sono all’altezza dell’intelligenza che pensano di avere. Mi fanno ridere con tanta tenerezza.

Questo è anche un libro che parla dell’ossessione dell’identità, dell’atto performativo di se stessi, della reperibilità. Chi siamo nel confronto con gli altri?

Forse parla di identità, ma al contrario. È un romanzo sulle appartenenze, su quanto la nostra più profonda identità sia collettiva, perché risiede nei nostri amori, nelle nostre frequentazioni. L’identità è un concetto definibile solo per frequentazione. Degli altri.

La letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano”, disse in un’intervista Foster Wallace. Lei, partendo dai fantasmi che agitano la realtà e la radice umana dei suoi protagonisti, riesce a fornire una risposta?

Di solito riesco a fornirmi domande. E spero sia stato così anche questa volta.

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