E poi basta: il manifesto di Espérance

by Felice Sblendorio

“Si sta insinuando l’idea che l’origine o il colore di un corpo siano molto più importanti della sua dignità e della sua vita”: scrive così Espérance Hakuzwimana Ripanti nel suo importante e toccante libro “E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana” (People Editore, 240 pagine, 15 euro). Di storie, di bellezza e di paure parla Espérance, giovane scrittrice e attivista culturale, nata nel 1991 in quel Ruanda del genocidio e arrivata nel nostro Paese, a Brescia, all’età di tre anni.

Di viaggi e di parole è fatto questo libro. Di sorrisi, sguardi e dubbi. Di coraggio per immaginare un Paese oltre i pregiudizi, le domande che vogliono confermare uno stigma, i nostri avidi sguardi. Scrivendo un manifesto che diventa di ciascuno di noi e riguarda tutti noi, questa giovane scrittrice fra autobiografia, analisi lucide, stratificate e pensieri che guardano al futuro con un fiato più lungo di quello che noi tutti ci concediamo, ha realizzato uno spazio di narrazione autentico che è al contempo una carezza e un pugno.

Con una grande qualità che è la complessità del pensiero, nella scrittura Espérance scava nel privato e nel magma del sociale del nostro Paese tratteggiando qualcosa di vivo e sensibile. Ritrova così una forza fresca perché dona alla sua storia un tratto umano, molto spesso negato a tutte quelle narrazioni che banalizziamo, riduciamo in numeri, aggressioni, sguardi e volti silenti. In queste pagine non c’è nulla di tutto questo perché c’è qualcosa in più: la paura e la speranza di essere una forza gentile nonostante la banalità razzista. bonculture ha intervistato Espérance Hakuzwimana Ripanti.

“Poi, a un certo punto, essere nera e donna è diventato doloroso e ingombrante, fuori luogo, pericoloso, e tanto altro”, scrive nell’introduzione. Quando ha riconosciuto questa sensazione di pericolo inquieto che stava cominciando ad agire su di lei?

Ho capito di aver scritto questo libro molto tempo prima di quando mi sono messa davanti a un pc. È stata un’elaborazione che ha voluto e avuto il suo tempo; lungo, intenso e molto molto faticoso. “E poi basta” è nato quando ho cominciato a rendermi conto che in me, per gli altri, c’era qualcosa che non andava. Ci ho impiegato anni e tantissime finestre chiuse prima di vedere questa cosa; riconoscere il disagio, l’impotenza, la rabbia. Ma quando ho visto tutto ciò che mi aveva assorbito, i timori che mi avevano frenato ho capito immediatamente che dovevo fare qualcosa. Ridendo dico sempre che l’unica cosa che so fare è scrivere, così non ho potuto fare nient’altro se non quello.

In queste pagine racconta le difficoltà e la stanchezza dell’essere vulnerabili, esposti, limitati in una specie di gabbia. Ma come si cresce quando non ci si sente mai a casa, mai nel proprio posto, mai nel giusto sguardo degli altri?

Casa per me è una possibilità e non un obbligo, ed è una cosa che ho accettato negli anni, nel percorso e negli incontri importanti che mi sono capitati. Casa per me non può essere un luogo fisico ma è costante e fermo in cose specifiche come i libri che ho comprato, il carattere dei miei amici, i fiumi delle città in cui ho abitato e tanto altro. Se quando ero più piccola mi risultava difficile e doloroso non avere un posto che consideravo una casa fissa, reale o mia, nella crescita ho imparato ad apprezzare questa pluralità e fluidità. 

Quando ha realmente capito che quell’essere nera per sfumature, per fortuna o per caso l’avrebbe determinata?

Il 3 febbraio 2018 è stata la mia data di svolta: ero a Brescia, guardavo la televisione e a un tratto la notizia di un uomo che aveva sparato a sei persone per strada mi aveva sconvolto. Sei persone dalla pelle nera – esattamente come la mia – erano state colpite e ferite per un (ri)sentimento di vendetta a seguito di fatti recenti di cronaca nera. Ho passato i giorni successivi a chiedermi quanto potessi sentirmi in pericolo e quanto tutto ciò che mi faceva sentire in quello stato non potevo cambiarlo. Lì ho capito che, senza volerlo, il mio corpo ha iniziato a determinare i miei sentimenti e la mia identità, e quando mi sono resa conto che stava diventando un problema ho scelto di trasformare quella paura in qualcosa di possibile e migliore.

Molto spesso le parole a cui bisogna prestare attenzione non sono le nostre, ma quelle degli altri. Quali parole e domande l’hanno più ferita?

Vivere circondati da sguardi che non solo ti fissano ma ti penetrano per scoprire e capire chi sei, perché sei dove sei, com’è che non sei dove dovresti essere e quando te ne andrai, è faticoso, estenuante e frustrante. Da affrontare ogni giorno, da vivere nel quotidiano e da assimilare nel pensiero e nella crescita.
A me non piace citare le cose che mi vengono dette, fare l’elenco degli insulti razzisti che ho ricevuto o ricevo. Le mie parole e il lavoro che cerco di portare avanti vanno ben oltre alla singola offesa.

Far scomparire l’altro, escluderlo da un campo di vista globale, credo sia uno dei rituali canonici della pratica razzista. Come si rivendica la propria identità quando si trasformano gli esseri umani in masse?

Verso i miei 17, 18 anni il mio più grande desiderio era quello di essere trasparente. Essere invisibile agli occhi degli altri per poter evitare domande indiscrete, curiosità invadenti e micro-aggressioni quotidiane. È una sensazione che mi ha perseguitata per anni e ancora adesso provo a tratti; specialmente in questo periodo in cui il dibattito mediatico vede il corpo nero sempre al centro della cronaca. Vivere nel proprio Paese con la speranza di essere invisibile è già una delle azioni violentissime che un pensiero e una realtà razzista riescono a scatenare senza doversi sforzare troppo. Ho deciso di rivendicare la mia identità scrivendo e parlando, usando l’unico mezzo a me accessibile: la parola. E tramite quella, la trasmissione di storie e di emozioni mi auguro di potermi ritrovare nelle strade, negli spazi e ovunque io desideri essere e stare.

La sua storia, nonostante tutto, rappresenta soprattutto una luce di speranza, di salvezza. Nella battaglia della vita ci sono stati i libri e le parole a costruire una casa protetta. Le storie ci salvano?

Ciò che le storie ci scatenano salva, l’immaginazione e la fantasia che tengono accese, i mondi in cui rintanarsi, le parole nuove da imparare e da usare per cullarsi e per difendersi. Le storie sono tutto, e più sono diverse e più ci aprono alla vita e alle incertezze umane. Più storie si leggono, si conoscono, si approfondiscono più grande potrà essere la percezione del mondo che ci circonda. Le storie sono un valore aggiunto, ciò che nascondono al loro interno il vero tesoro.

Antirazzista wannabe: suggerimenti” è uno dei capitoli più importanti in cui lei parla di un razzismo di profondità che attanaglia il Paese Italia. Che mondo costruiscono questi pregiudizi radicati nelle credenze e nei nostri atteggiamenti quotidiani?

L’antirazzista wannabe è colui che si autoproclama alleato e protagonista nella battaglia al razzismo e alle discriminazioni senza avere alcun tipo di struttura storica ed empatica. In Italia dichiararsi antirazzisti in alcuni casi è un riflesso automatico dinanzi al fenomeno di intolleranza che segna questo Paese da anni. Spesso, però, questo schierarsi e questo desiderare fortemente di essere dalla parte giusta è solamente un’autoassoluzione riguardo un argomento molto più complesso di cui la maggior parte delle volte, privi di un’esperienza in prima persona, si rischia di dichiarare o fare veri e propri strafalcioni. Non è facile partecipare a una battaglia senza ascolto, senza rispetto nei confronti di chi la combatte ogni giorno.

I dati degli ultimi anni confermano un sostanziale incremento di intolleranza e di attacchi razzisti. In questo spazio di costruzione di simboli e narrazioni distorte che responsabilità ha il linguaggio politico?
Addossare alla politica degli ultimi anni tutta la colpa del clima odierno è un’operazione politica anch’essa. Le aggressioni razziste, l’hate speech e la propaganda d’odio che si sentono oggi erano presenti anche dieci anni fa. Solo che non c’era la stessa attenzione mediatica, lo stesso desiderio di “polarizzazione” e la campagna elettorale costante non era basata sulla pelle degli ultimi, dei più discriminati. Prima ci si rende conto che il razzismo, la xenofobia, il sessismo e l’omofobia sono caratteristiche purtroppo insiste nello strato sociale italiano prima si può evitare di pensare ai sondaggi, agli osservatori, agli articoli di giornale e iniziare ad affrontare il problema dalla radice.

“Nera e bella perché non voglio sapere di essere sexy, attraente, provocante, diversa, esotica, fantastica; voglio sapere di essere io. E io sono tantissime cose, oltre che nera”, scrive. Ma di che sogni è fatta questa ragazza che nel nome porta un auspicio: accompagnata nel viaggio?

Sogno di scrivere libri per ragazzi e per bambini. Vorrei scrivere quelle storie che non ho potuto leggere quando ero piccola; per ridarmi un pezzettino delle domande di infanzia che non hanno trovato risposta. Mi immagino scrittrice e molto altro, tanto altro, che non vedo l’ora di scoprire.

Ci sono tantissime lettere che cominciano con “carissimo amore” e si chiudono con un sorriso e con due condizioni: paura e libertà. La rappresentano, oggi?

Alle presentazioni mi hanno chiesto chi fosse questo fantomatico “carissimo amore” e la mia risposta automatica è stata: chiunque. Ho scritto quelle lettere nel corso nel 2018 perché ero spaventata e mi sentivo sola, perché il mondo che vivevo mi sembrava assurdo e inadatto ai miei sogni. Dentro questa corrispondenza epistolare ho messo dentro tutte le mie paure e tutta la luce accecante della mia speranza.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.