Erri De Luca e il rapporto inscindibile con la famiglia: «Il nodo può allentarsi, non sciogliersi».

by Felice Sblendorio

I nodi fra i padri e i figli si sciolgono solo in apparenza. Sembra di capire questo leggendo l’ultimo libro di Erri De Luca, “A grandezza naturale” (Feltrinelli, 128 pagine, 13 euro): in una narrazione intrecciata, che De Luca paragona a un illecito perché «il verbo più adatto alla narrativa non è scrivere un libro ma commetterlo», l’autore napoletano racconta la frattura di spazio e di tempo che si crea nelle famiglie, in quei rapporti che tendiamo a sciogliere, allentare, distruggere, ricucire.

Partendo da storie estreme che toccano Isacco e Marc Chagall, la figlia del criminale di guerra del “Torto del soldato” e il suo essere ancora figlio perché mai padre, Erri De Luca viaggia nei secoli con la sua parola esatta e compiuta indagando il cuore silenzioso di un legame biologico e affettivo sempre teso e mai del tutto pacificato. bonculture ha intervistato Erri De Luca.

Il titolo di questo libro prende spunto da un quadro di Chagall, “Il padre”. Un quadro a grandezza naturale.

Chagall lo dipingeva a memoria a Parigi, vuole rivolgersi a suo padre, è un atto di devozione, di commozione, di risarcimento.

Queste storie raccontano esperienze familiari estreme. Perché sono rapporti quasi sempre regolati da drammi, crepe, conflitti?

I rapporti tra genitori e figli, tra generazioni, sono conflittuali. Dopo gli anni dell’apprendimento vengono quelli degli esperimenti, degli azzardi, dei ribaltamenti. È biologico. È innaturale, invece, il prolungamento della dipendenza.

Niente ci accomuna come l’essere figli?

Si è figli, per certo, ma ci viene chiesto di chi, nomi e cognomi di genitori. A Napoli si chiedeva «A chi appartieni?» per connotare: essere figli non basta, è necessario risalire. E gli orfani crescevano mutilati.

Come si dà peso a chi ci ha generati?

Si dà peso con l’affetto, con la cura, con la protezione quando i genitori smettono di essere autonomi.

È indispensabile, in alcuni passaggi della vita, prendere commiato dalle proprie origini?

Prendere distanza sì, ma non ci si può congedare dall’appartenenza. Il figlio, la figlia di un criminale di guerra non può dissociarsi dal proprio sangue. Può maledire, ma non può espiantare la radice.

C’è più illusione o presunzione nel credere che i legami o i vincoli siano scindibili, ignorabili?

I legami familiari stretti sono inestirpabili. Si possono ignorare, non rivolgendo più la parola al proprio fratello, com’è successo a Eduardo e Peppino De Filippo, ma si resta congiunti. Il nodo può allentarsi, non sciogliersi.

Il lessico familiare spesso è un lessico muto, che manca. I non detti a volte ci salvano?

I non detti posso custodire gli affetti, proteggerli dalle reciproche verità che addolorano e non possono guarire.

Chagall si allontana, quasi vergognandosi, dalle mani del padre che conservano l’odore di pesce. La riconoscenza è un sentimento postumo?

La riconoscenza ha i suoi tempi, un figlio la può avvertire con una fitta al cuore da una distanza irreparabile. Chagall dipinge il pastrano di suo padre e fa splendere l’unto della salamoia, che aveva respinto, rifiutato di rispettare per tutta la durata della sua vita in casa. Quell’uomo commerciante di aringhe, con l’odore di pesce e le mani deformate dalle artriti, è colui che gli ha permesso di studiare, di fare tutt’altro.

La sua generazione è riuscita a superare i suoi padri?

La mia generazione ha criticato i genitori sovvertendo i loro valori, la famiglia, il loro stile di vita, gli abiti e i partiti politici. Le rotture si sono diramate come le crepe sulla superficie di un vaso. Siamo stati opposti e perciò insolenti, spietati.

Racconta che, idealmente, in molti lanciarono i sampietrini contro i propri genitori.

Era la discesa in strada, nelle piazze, gli urti con la polizia, gli arresti, i processi, le prigioni, ma era soprattutto una generazione in lotta con lo Stato.

Gli anni di quella stagione di rivoluzioni e violenza coincidono con il primo nodo sciolto della sua vita. Perché abbandonò Napoli?

Partii per accumulo di insofferenze nei confronti della scuola, della città, della famiglia. Mi staccai a strappo a diciott’anni e mi trovai coetaneo di una generazione che era già in mezzo alla carreggiata, giù dai marciapiedi.

Oggi che sguardo ha sul passato della sua generazione?

Abbiamo fatto quello che ci metteva davanti l’ordine del giorno della nostra gioventù. Sono rimasto leale con le ragioni del giovane uomo che sono stato allora. Chi ha voluto dissociarsi, non mi è rimasto amico.

Cosa rimpiange di quel Novecento a cui deve un’impronta?

Non ho rimpianti di nessun genere, credo per un difetto di mia fabbricazione, e non ho nostalgie. Sono uno del 1900.

Afferma che la storia di quel secolo ha «massicciamente frantumato le piccole storie personali». Lo crede anche per le storie che ha abitato, che ha attraversato?

Sì, ma io mi sono mischiato con i lieviti madre di quel secolo, con le rivoluzioni, le emigrazioni, le guerre, la vita operaia.

L’economia dei ricordi, come la chiama lei, l’ha protetta dal vuoto delle mancanze?

I ricordi sono gentili concessioni di una memoria scadente, che non funziona da archivio. Da un’amnesia provengono frammenti che rimetto insieme con la scrittura. Il vuoto lo incontro scalando in parete e mentre lo salgo lo ingrandisco. Il vuoto mi tiene compagnia.

Perché scrive, allora? Per risarcire un’eredità, per aggiungere il proprio sguardo a storie che richiedono una nuova voce?

Scrivo per abitudine presa da ragazzo e proseguita ovunque. Scrivo per tenere compagnia a una persona che non conosco e che un giorno aprirà le pagine di una storia scritta da me.

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