Essere Walter Siti: una conversazione

by Felice Sblendorio

Per introdurre un grande scrittore contemporaneo, uno dei pochi che resteranno fra qualche decennio con immutata forza e stile, servono poche parole. Se poi lo scrittore in questione è Walter Siti, possono bastare solamente i suoi libri: compendio di alta letteratura, tensione poetica, stili complessi, inquadramento antropologico, liberazione di ossessioni, inconsci e manie.

Da “Scuola di Nudo” a “Troppi Paradisi”, passando per il premiato allo Strega “Resistere non serve a niente” e arrivando a “Il contagio”, “Bruciare tutto” e “Bontà”, breve apologo pubblicato a fine 2018 (Einaudi Stile Libero, pagine 120, euro 13). Partendo da questa piccola storia di evasione dai desideri, “dove si racconta di quanto la liberazione sia difficile, soprattutto perché spesso non sappiamo da che cosa precisamente ci si debba liberare”, bonculture ha incontrato Walter Siti per una lunga conversazione sui temi caratterizzanti della sua produzione letteraria.

Bontà”, questo apologo pubblicato da Einaudi, è un’antitesi lessicale della condizione umana del suo protagonista. Sono i desideri frustrati a tratteggiare con un acido cinismo il presente di Ugo? 

Sì, ovviamente. Ugo, questo anziano signore, è uno che non fa la vita che avrebbe voluto fare. Lui si sente scrittore, poeta, artista ma, evidentemente, questa strada è fallita e il suo lavoro in casa editrice lo ha sempre considerato un po’ come una specie di ripiego. Questa situazione, ovviamente, ha creato in lui una sorta di rancore che poi è degenerato in cattiveria.

Di estensione e distorsione dei desideri parlava già, facendo riferimento al carnaio di oggi, in “Troppi paradisi”. Il tempo dei desideri, in Occidente, è scaduto?

Io penso che il tempo dei desideri non possa mai scadere perché è connaturato a questo strano animale che ha preso una strada molto diversa dagli altri animali che stanno sulla terra, per cui deve commisurare questa specie di esagerazione, questa enfatizzazione del cervello con un corpo che è limitato. I desideri, quindi, servono per proiettare un assoluto che, in effetti, non esiste. Diceva Leopardi nello “Zibaldone” che non bisogna contrastare i desideri dei fanciulli per non trovarli morti dietro le porte. Io la penso proprio così: essendo connaturati alla nostra specie, non possiamo proprio fare a meno dei desideri.

Se questo tempo del desiderio non è scaduto, come si è trasformato, come ha mutato pelle?

La cosa più interessante dal punto di vista sociale e sociologico è la risposta alla domanda: che fine fanno i desideri, come vengono declinati, piegati? È interessante, almeno in tutto l’Occidente ma nel nostro Paese anche un po’ di più, capire cosa ha prodotto questa crisi economica che sta durando veramente molto. Questa fase di stagnazione è stata preceduta da un periodo dove sembrava si potesse comprare tutto, che la realizzazione di ogni desiderio, soprattutto di quelli più materiali, fosse a portata di mano. Oggi, invece, credo ci sia una specie di appassimento e atrofizzazione dei desideri materiali che si stanno spostando altrove: direi sulla tecnologia, sul mondo virtuale dove effettivamente si può continuare a desiderare a poco prezzo, coltivando questa illusione di un appiattimento delle classi sociali che in realtà non esiste, perché la forbice fra ricchi e poveri si sta allargando continuamente. La tecnologia ti permette, nonostante le difficoltà economiche, di avere un telefono, un computer, servizi gratuiti e opportunità in più. Così da una parte è diventata una specie di protesi che serve per dare sfogo ai desideri virtuali, mentre dall’altra si è trasformata in una voglia di assoluto. Negli anni desideranti per eccellenza, che erano i nostri anni ‘80/90, questa voglia prendeva la strada dell’edonismo reaganiano, mentre oggi quella pulsione sta prendendo una pericolosa forma di fedeltà al capo: una specie di desiderio per delega nei confronti di colui che sta facendo tutte le cose giuste senza ombra di dubbio. Questo fenomeno allarmante è da sempre una caratteristica dei regimi totalitari.

I desideri, quelli che contano, proprio nei suoi libri non trovano soddisfazione nella realtà e quasi mai sono tollerati dalla società. È nell’assoluto che si risolve il desiderio di potenza?

Il desiderio di potenza ha sempre avuto una doppia faccia, nel senso che un desiderio non può non avere una dimensione verso l’assoluto perché non esiste un desiderio serio che non sia un desiderio di assoluto. Si desidera sempre di essere il più grande, il più ricco, il più ammirato, non si desidera mai un grado minore. È chiaro che c’è sempre un lato di questo tipo. Il desiderio specifico di potenza si confonde, però, con altri meccanismi che non sono di tipo strettamente desiderante, ma sono invece la sensazione di comandare, di poter tenere sotto di sé tutta una serie di persone. Sono meccanismi di tipo competitivo, diciamo così, che non sono strettamente collegati al desiderio ma perlopiù alla vita di branco: un tale che comanda e tutti dietro di lui. 

Ha scritto che dall’assoluto e dall’infinito non si guarisce. Come ci si protegge, però?

Ci sono due modi: uno dovrebbe essere la razionalità e la convinzione che nel mondo esistano dei limiti. Uno che era abbastanza ferrato su queste cose, Goethe, diceva che l’infinito non è altro che percorrere il finito da tutti i lati. L’infinito e l’assoluto non sono alla portata di nessuno, neanche dell’uomo come essere sociale. Dall’altra parte dovrebbe essere il buon senso, la razionalità, la voglia di vivere associati a frenare questi istinti. Il marchese de Sade, per cercare di seguire tutti i suoi desideri, si riduce ad essere rinchiuso dentro la Bastiglia perché la società reagisce e non lo lascia soddisfare indistintamente tutti i suoi desideri. Questo, però, è un mondo filosofico, razionale, ma poi c’è l’altro modo che sperimentiamo invecchiando, cioè quando vengono meno le forze, le capacità e il corpo cede. Man mano uno deve rimodulare i propri desideri a seconda delle possibilità del corpo, sennò diventa un vecchio pazzo. È un destino che Ugo sconta: arrivato oltre un certo punto se uno insiste a voler perseguire un certo tipo di desiderio irrealizzabile l’unica cosa giusta è morire.  

Il suo Ugo è in difesa per salvarsi dalla solitudine, dalla vecchiaia, da una voglia di morte attesa e in affanno. Come si struttura, in questa rete di rancore, la sua cattiveria?

Una cosa che è connaturata alla disattività di ogni desiderio è il fallimento di quello che vorremmo realizzare. C’è sempre un momento in questa cosa ovvia, diciamo così, che viene invece declinata come rancore, come se fosse colpa di qualcun altro il fatto di aver fallito un desiderio. Tutto questo è più semplice: invece che ammettere che i nostri desideri sono inadatti per questo mondo, ci salviamo facendo riferimento alla sfortuna, alla non comprensione del nostro io, etc. Così uno si sente in credito nei confronti del mondo e quindi comincia a vendicarsi. Da questo spunto di vendetta nasce la cattiveria. Il male nasce da questo, da una sorta di invidia. Lucifero nasce per il fatto che avrebbe potuto essere quasi Dio, invece non lo è diventato. A quel punto invece che essere secondo in paradiso ha preferito essere il primo dell’inferno.

Questo non è il primo personaggio “cattivista” della produzione sitiana. È un modo per rivalutare e dare spazio a sentimenti potenti, ma molto spesso sottovalutati, come il male e l’odio?

Non è del tutto vero. Un sacco di filoni culturali nel nostro passato hanno centrato la risposta sul male. La stessa invenzione dell’inferno e di Lucifero è dentro questo canone, partendo proprio dal “Paradiso Perduto” di John Milton in cui il personaggio più affascinante è quello dell’angelo infernale. Il male è un basso continuo che esiste in tutta la cultura, come le tante figure di demoni che compaiono in molte tradizioni, anche in quelle non Occidentali. Dall’altro lato, quello che lei dice è vero se noi teniamo fissa l’idea del progresso, il compito dell’umanità di vedere sempre la luce in fondo al tunnel, di attraversare vittoriosamente la storia portando avanti la qualità dell’avanzare del tempo: così è chiaro che conviene mettere sotto silenzio più che il male, io direi il sentimento dell’odio. Si ha come l’impressione che l’odio sia solo una specie di residuo passivo, invece quelli che odiano, considerati sempre come dei poveri disgraziati, sono quelli che scatenano guerre, conflitti, attentati. Non bisogna dare per scontato che l’odio sia un sentimento legittimante quanto l’amore. Anche qui, l’idea che a odiare siano sempre gli altri è un pensiero forviante. Non crederò mai a un uomo che non abbia mai provato l’odio dentro di sé.

Il romanzo si apre con una frase forte: “fare schifo è un atto politico”. È una rivendicazione contro uno storytelling fintamente eroico e ottimista che sostiene e condiziona il nostro tempo? 

Quella è una boutade che nasce da questo pensiero. I media più diffusi, dalla televisione ai giornali, passando soprattutto per la pubblicità che punteggia le trasmissioni televisive, ci propongono una visione indiscutibile di vite rosa, di pillole salvifiche, di case meravigliose a poco prezzo, di viaggi bellissimi e gratuiti. Questo mondo ideale è davvero una cazzata che non sta né in cielo e né in terra e di cui non si parla mai, lasciando lo spazio a slogan e motti come: quello che puoi sognare lo puoi anche fare, non mollare mai, etc. Tutta questa insistente dose di positività a tutti i costi io credo sia produttrice di enormi frustrazioni perché quando uno verifica che una cosa che ha sognato non può farla e che è costretto a mollare su un sacco di cose, lì si sente davvero un fallito, uno che, appunto, fa schifo. Rivendicare il fare schifo può anche avere un significato politico, perché va contro tutta una retorica ottimista e coatta per cui sembra che tutti debbano sempre brillare, vincere.

Ma è davvero impossibile confessare la propria indegnità in un magma sociale che ci spinge, sempre più, a far emergere il nostro tratto animalesco?

Io penso che la vergogna sia una cosa molto utile. Ammettere, diciamo così, le cose che si fanno e di cui ci si vergogna credo sia una cosa molto positiva. La vergogna è una bella sensazione, è qualcosa che ci aiuta a vivere. Anche in questo caso, però, sembra che siano sempre gli altri a doversi vergognare. Lo sentiamo dire in ogni talk: “vergognatevi”. Quel monito, urlato da tutti, è sempre rivolto agli altri ma mai a se stessi.

Lei come si confronta con questo tema? Il Walter Siti primo della classe, primo in tutto, come vive il fallimento, l’insuccesso?

Io sono sempre stato uno molto competitivo, quindi quelle volte che non mi riuscivano certe cose ne pativo molto. Adesso con la vecchiaia un po’ meno, nel senso che uno pensa: vabbè, ho fatto tutto quello che potevo, non è che posso rimuginare ancora su quello che non è andato bene, su quello che non è riuscito. Però ci sono delle cose che ancora adesso mi fanno continuare a rosicare. Tante, tante cose.

Questo libro, dopo “Bruciare tutto”, è il secondo libro che non anima quel “Walter Siti come tutti”. Com’è nato quell’io-alterato e distortoche ha anticipato, in Italia, i tratti dell’autofiction?

Io ho sempre capito, fin da quando avevo sei o sette anni, che avrei vissuto dentro la letteratura. Era talmente più bello il mondo finto della letteratura rispetto al mondo reale che io volevo vivere in quel mondo. Dopodiché ho affrontato questo mio desiderio dal lato che era possibile per uno della mia classe sociale: cioè studiando, facendo l’università e poi il critico letterario. Non potevo andare da mio padre a sedici anni e dire: “papà, voglio fare lo scrittore”, perché sarebbe stato come se io avessi proposto un mio futuro da ballerino di danza classica. Da critico, poi, quando mi sono ritrovato a occuparmi della letteratura degli altri, mentre avevo un sacco di cunicoli non esplorati nella mia psiche che mi condizionavano anche piuttosto pesantemente – da piccoli attacchi isterici a problemi legati a difficoltà caratteriali e di vita – ho cominciato a comprendere che forse mi dovevo occupare anche di queste mie cose provando a scriverne, a buttarle giù. All’inizio è stata una cosa per salvarsi, come spesso succede quando si comincia a scrivere. Mi vergognavo troppo, però, a scrivere una cosa di tipo diaristico, senza forma, senza una dignità letteraria che potesse essere anche letta da altri. Dopo ci ho messo dodici anni per impiantare il primo libro e il momento che mi ha fatto scattare la cosa è stato quando ho cominciato a pensare che una certa mia condizione poteva essere non solo personale, quindi un difetto privato, ma poteva essere in qualche misura emblematica o tipica di una situazione della modernità nella quale stavo vivendo. A quel punto, visto che sul tipico avevano scritto molti romanzi, ho scelto di buttare lì tutte le mie budella per vedere se anche loro diventavano abbastanza tipiche. Quell’io alterato è nato un po’ così.

Da un po’ di tempo ha preso le distanze da questa immersione totale della sua persona…

Da qualche libro, dopo che ho attraversato tutte le mie cose, ho cominciato ad avvicinarmi alla vita degli altri. Il libro che ho consegnato a Rizzoli in prima stesura è un libro dove per la prima volta narro due vite che non sono la mia, due bio di persone differenti. In questo lavoro, nonostante questa volontà iniziale, nelle ultime venti pagine attraverso queste due vite che all’inizio non capivo perché le volevo raccontare insieme ad un materiale personale, una specie di affondo su mia madre, su alcune cose autobiografiche molto dolenti, che non avevo mai affrontato. Quindi alla fine ho l’impressione che è come se avessi fatto una specie di autobiografia appaltata perché ho buttato addosso a due persone molto più giovani di me un problema che, evidentemente, io da solo non avrei mai avuto la forza di affrontare. L’autobiografia è diventata così sotterranea e presente dentro di me che, anche quando cominci in buona fede a parlare degli altri, bussa senza chiedere permesso.

Sembra di capire che dai propri demoni non ci si liberi mai. È così?

Del tutto non ci si riesce mai. Adesso ho settantadue anni e ho tirato fuori un discorso su mia madre che non avevo mai fatto. Ho l’impressione che fino all’ultimo mio respiro, fino all’ultimo beverone bevuto per farla finita, è ovvio che i miei demoni non smetteranno mai di agire. Io penso che sia un problema abbastanza tipico degli scrittori. Con il passare dell’età, la psicanalisi e la scrittura, l’unica cosa buona è che ti fanno meno male queste ferite, ti lasciano più di tempo per guardarti intorno, privilegiando un po’ di più la curiosità per l’ambiente, la società, per tutto quello che sta accadendo. Io adesso sono triste perché mi restano pochi anni da vivere e vorrei vedere questi decenni così interessanti, questa nuova ribellione delle masse, questa seconda puntata degli anni ’20. Da questi grandi cambiamenti mondiali mi piacerebbe capire come andrà a finire così da essere sempre meno concentrato sui miei problemi o sul mio ombelico.

Il suo protagonista lavora nel mondo dell’editoria e, parlando di letteratura, dice: “la considerano uno strumento per confermare, non un acido per corrodere”. La sua è una visione critica dello stato attuale, massimizzato fra una dimensione legata all’intrattenimento e un’altra semi-seria dedita all’impego civile: allora a cosa serve oggi la letteratura?

Guardi, questa è proprio la cosa che in questo momento mi fa soffrire di più, nel senso che io ci ho veramente giocato la vita sulla letteratura e ho l’impressione che questo sia un momento in cui quello che io intendevo per letteratura è diventato un senso molto minoritario. Ho l’impressione che l’accento oggi sia posto sull’efficacia, cioè su che cosa la letteratura fa al cervello, mentre io sono cresciuto con l’idea di dire che quello che prevale è il senso, non l’efficacia. Quindi io continuo a pensare che quello che la letteratura ha di proprio, che non è surrogabile dalla scienza o da altri modi di conoscere, sia il fatto che attraverso un gioco formale emergono cose che tu non sapevi di sapere. Con la storia racconti quello che sai, con la scienza vai a cercare quello che non sai ancora, mentre la scrittura ti da la possibilità di arrivare alla fine del libro con delle cose saltate fuori che non erano in superficie. Questa avventura della conoscenza la puoi fare solo con la letteratura, ma se invece passa l’idea che la letteratura sia un altoparlante per amplificare, per dare più peso e più efficacia alle cose che tu sai già, evidentemente questa funzione che secondo me è quella più preziosa della letteratura va a farsi fottere.

Resterà una letteratura d’intrattenimento che incontrerà un pubblico con capacità analitiche leggere?

Oramai ho l’impressione che per un bel po’ di anni sarà questa la cosa privilegiata, quindi la letteratura come l’intendevo io, cioè delle trappole di senso che ti fanno scoprire il nuovo e lo sconosciuto, diventerà una cosa per pochi, una cosa di nicchia. Quando insegno nelle scuole di scrittura molti ragazzi che leggono i classici poi mi dicono che sono lenti, che non succede nulla, che ci sono un sacco di pagine inutili. Ho notato che c’è in loro una voglia di correre, di concludere, di andare al sodo indipendentemente dallo stile. Molto spesso mi dicono: non importa come sia scritta una cosa, l’importante è quello che dice. C’è un piccolo particolare: quello che si dice è come lo si dice, quindi da questo punto di vista non sono ottimista perché credo che ci sia un cono d’ombra che si debba attraversare. Molti secoli, ad esempio, non sono passati negli annali per la letteratura, come il IX secolo che, per quanto mi risulta, non credo sia stato fondamentale in Occidente per la letteratura. Questa crisi passerà, ma nonostante ciò quella letteratura di coscienza non finirà mai. In questi momenti siamo di nicchia in una società dove, come diceva quella santa donna di Lucia Poli, ci sono più santi che nicchie. Se devo dirla tutta è anche protettivo essere di nicchia perché una volta che hai preso quella strada non puoi cominciare a scrivere dei tweet o dei post su Facebook.

In questa crisi generale è ritornato qualche anno fa grazie al suo “Bruciare tutto” un dilemma fondato e importante nel campo della letteratura. Ci sono davvero dei limiti per chi scrive?

Sono stronzate, ovviamente legate all’idea che la letteratura debba fare del bene o diminuire il male nel mondo, anche se non si capisce bene perché. La letteratura può fare del male subito e del bene dopo, oppure il contrario, perché il male e il bene si alternano. Oggi credo che ai giovani leggere “I dolori del giovane Werther” faccia del bene, ma ai ragazzi dell’epoca che si suicidarono dopo averlo letto sicuramente non fece del bene. Comunque fu una polemica demente! 

Prima di quello che si può o non si può raccontare ci sono le parole, che nella sua produzione sembrano avere sostanza, muscoli. Come entra in empatia con le sue parole?

Lascio fare a loro. Mi metto in una condizione d’ascolto e le parole arrivano. Altre, invece, si piazzano lì, in posti sbagliati e quando le rileggi ti rimbalzano all’occhio come false. Per questo rileggo un lavoro molte volte per sostituire una parola sbagliata con una giusta. È un gioco a nascondino quello con le parole: devi aspettare che loro arrivino, senza forzarle, sennò diventano enfatiche, retoriche.

Molto spesso alle parole si relega il compito di restituire al mondo la sua inesattezza. È preoccupato per l’inflazione della cattiva parola?

Ho l’impressione che ci si lasci molto coinvolgere da parole usurate. Ascoltando i dibattiti televisivi noto che i politici tendono a ripetere sempre le stesse cose. L’invasione delle frasi fatte è impressionante, ma nonostante ciò nel discorso pubblico ci sono dei tesoretti di piccole parole con un suono vero che uno scrittore deve lavorarle e valorizzarle. Dentro questo mare, che contiene molta schiuma di parole che passano, che prima erano dette in luoghi comuni e ora rivendicano una dignità politica, ci sono anche pietruzze utilizzabili.

Lei trova queste pietruzze anche nella televisione pop, in quella tv trash tanto criticata. È un modo per uscire dalla torre d’avorio dello scrittore impegnato e contaminarsi nel magma difforme della società?

La torre d’avorio è una cosa che non ho mai capito, sinceramente. Se uno deve usare le parole conviene usare le parole del suo tempo, sennò diventa una letteratura troppo inabitata che già all’inizio si rifiuta di dialogare con le persone che corrono per la strada. La vera letteratura ha sempre fatto questo: la Divina Commedia di Dante raccoglie un sacco di parole che si dicevano all’epoca. È così che funziona perché scrivere già come un libro stampato è una cretinata. Io non credo alla lingua della letteratura, come dicono i francesi. A me piace depredare la realtà che è così sfaccettata, mutevole, complessa.

A venticinque anni dal suo esordio, da quel “Scuola di Nudo” così potente e atipico, cosa pensa di scrivere in futuro?

Il libro che uscirà nei primi mesi dell’anno prossimo credo sarà il mio ultimo libro. In questo momento non riesco a pensare ad un romanzo nuovo. Prossimamente ho voglia di mettere su un pamphlet di critica militante dal titolo “Contro l’impegno”. Le cose poi vengono da sole, quindi si vedrà.

Secondo lei resteranno i suoi libri in questo disordine di memoria e qualità?

La mia è una speranza, sì. Visto che non ho figli sarebbe bello che loro, i miei libri, ci fossero ancora qui quando io non ci sarò più. Se non succederà, dato che io non ci sarò più, non sarà più un mio problema.

Se lei dovesse salvare un suo libro imprescindibile quale salverebbe?

Io ho come l’impressione, come diceva lei, di aver scritto sempre lo stesso libro. Ma se mi chiedessero di salvare non uno ma tre libri, direi: “Troppi paradisi”, “Il contagio” e “Bruciare Tutto”.

Non mi cita il suo esordio, quel librone che l’ha fatta dannare per dodici anni?

A “Scuola di Nudo” sono talmente affezionato che oramai è diventato una parte di me:  faccia quello che vuole.

*La foto di Walter Siti è di Chiara Pasqualini

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