Pedro Lemebel
Folle Affanno, Cronache del contagio
Edicola Edizioni
Folle Affanno, Cronache del contagio è l’ultima pubblicazione edita da Edicola Edizioni del genio cileno trasgressivo Pedro Lemebel. Una raccolta di cronache narrative dove Lemebel ci offre un punto di vista inedito sul vissuto delle persone omosessuali degli anni Ottanta e Novanta in America Latina. Il mondo queer, oltre ad affrontare la dittatura di Pinochet, in quegli anni vide dilagare anche l’epidemia di AIDS.
L’artista cileno usa le sue parole e il suo corpo come barricata contro l’omofobia non esitando mai a riportare la verità. Per questo motivo all’interno della raccolta è inserito anche il poema-manifesto Parlo in nome della mia differenza, che proclamò durante un incontro della sinistra cilena gridando con esso la sua diversità.
bonculture ospita un intervento di Alice Rifelli, editrice del volume.
1986, Santiago del Cile
Sono trascorsi 13 anni dal colpo di stato che ha trasformato il paese del sogno socialista di Salvador Allende in una violenta dittatura militare quando lo scrittore e artista Pedro Lemebel mette in atto una delle sue performance più famose.
Presso la Estación Mapocho di Santiago si sta tenendo un’attività clandestina organizzata dai partiti della sinistra. Indossando scarpe col tacco e con la falce e il martello disegnati in volto, Lemebel sale sul palco e legge (o diffonde tramite la registrazione della sua voce) i versi di Parlo in nome della mia differenza, il manifesto politico che diventerà il suo j’accuse contro la sinistra cilena, incapace di relazionarsi con il tema dell’omosessualità e quindi con ogni forma di marginalità. Dieci anni più tardi, il testo del Manifesto verrà raccolto e pubblicato nel libro Loco afán: crónicas de sidario, da pochi giorni disponibile anche in Italia nella traduzione di Silvia Falorni per Edicola Edizioni con il titolo di Folle affanno. Cronache del contagio.
A metà strada tra racconto, cronaca e poesia, il Manifesto di Lemebel è, come si diceva, un esplicito atto d’accusa nei confronti della sinistra cilena, che si vorrebbe aperta e democratica ma che in realtà si dimostra patriarcale e dogmatica (“Che ne farete di noi, compagni?”). I suoi versi risuonano come un grido di guerra, una trincea fisica e simbolica per la lotta a favore del diritto di vivere “diversi e unici tra eguali”.
Di fronte alla molteplicità delle possibili forme dell’essere, Lemebel chiede giustizia per chi si allontana dalla norma sociale e per questo soffre l’esclusione e l’emarginazione, due condizioni che lui stesso conosce bene (“Ma non parlatemi di proletariato/Perché essere povero e frocio è peggio”).
Nato in un quartiere periferico di Santiago in una famiglia di origini modeste, Lemebel parla dagli avamposti della marginalità e anche dopo aver raggiunto la popolarità non smette di fare della propria arte un manifesto di resistenza nei confronti di ogni forma di prevaricazione.
Invitato allo Stonewall Inn di New York, “cattedrale dell’orgoglio gay” nordamericano, Lemebel racconterà di come sia facile essere ignorati dalla stessa comunità omosessuale “se porti in giro la tua malnutrizione di loca terzomondista […], se te ne vai in giro con la tua faccia cilena sconvolta di fronte a questo Olimpo di omosessuali potenti e ben nutriti che ti guardano con sdegno” (“Cronache di New York”, in Folle affanno).
La scrittura di Lemebel è militanza pura e il suo Folle affanno rappresenta “una barricata nella lotta per l’emancipazione marica, il manifesto di un’urgenza” (Juan Pablo Sutherland). In queste cronache “battagliere, politiche, barocche, indigene e meticce” Lemebel tratteggia con dolcezza e ironia la quotidianità, i sentimenti, la malattia e la morte della comunità omosessuale e transessuale cilena, decimata negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso dalla piaga dell’AIDS, l’ombra che arriva veloce e sicura ad annientare gioie, speranze, ambizioni e amori.
Unendo in maniera indissolubile impegno letterario e civile, Lemebel ci ricorda quanto i diritti negati dall’omofobia non colpiscono solo chi è vittima diretta di violenza ma le fondamenta stesse della società. Una comunità che non insorge di fronte alle vessazioni nei confronti di chi è diverso, più fragile o più libero, e che le considera come situazioni individuali che non riguardano tutti non ha ancora intrapreso il proprio cammino verso la democrazia.
“Non sono Pasolini che chiede spiegazioni
Non sono Ginsberg espulso da Cuba
Non sono un frocio mascherato da poeta
Non ho bisogno di maschere
Questa è la mia faccia
Parlo in nome della mia differenza
Difendo ciò che sono
E non sono poi così strano
Mi fa schifo l’ingiustizia
E non mi fido di questa cueca democratica
Ma non parlatemi di proletariato
Perché essere povero e frocio è peggio
Bisogna essere acidi per sopportarlo
È girare alla larga dai machos dell’angolo
È un padre che ti odia
Perché il figlio è dell’altra sponda
È avere una madre con le mani spaccate dal cloro
Invecchiate di pulizie
Che ti cullano ammalato
Per cattive abitudini
Per cattiva sorte
Come la dittatura
Peggio della dittatura
Perché la dittatura passa
E arriva la democrazia
E subito dopo il socialismo
E poi?
Che ne farete di noi, compagni?
Ci legherete per le trecce come pacchi
indirizzati a un centro per malati di AIDS cubano?
Ci metterete su qualche treno diretto da nessuna parte
Come sulla barca del generale Ibáñez
Dove abbiamo imparato a nuotare
Ma nessuno ha raggiunto la costa
Per questo Valparaíso ha spento le sue luci rosse
Per questo le case chiuse
Hanno regalato una lacrima nera
Ai frocetti mangiati dai granchi
Quell’anno che la Commissione per i Diritti Umani
non ricorda
Per questo compagni vi chiedo
Esiste ancora il treno siberiano
della propaganda reazionaria?
Quel treno che attraversa le vostre pupille
Quando la mia voce diventa troppo dolce
E voi?
Che cosa farete con quel ricordo di noi bambini
Che ci masturbavamo e non solo
Durante le vacanze a Cartagena?
Il futuro sarà bianco e nero?
Il tempo scandito da notte e giorno lavorativo
Senza ambiguità?”
