Geografia di un dolore perfetto, Enrico Galiano indaga l’amore e la presenza dell’essere figli

by Giorgia Ruggiero

Nel suo ultimo libro Geografia di un dolore perfetto, Enrico Galiano scrive della relazione più radicata del mondo, quella più difficile da descrivere, quella più naturale e scientifica, ma soprattutto quella che c’è prima di tutti gli altri legami della tua vita: è quella tra chi ti ha messo al mondo e te stesso.

Per farlo Galiano parte da una domanda scomoda e forse per questo che parla al nostro io più intimo: quand’è che si smette di essere figli?

Pietro ha l’insegnante più completo della storia, suo padre: capace di insegnargli l’amore, la presenza e l’affetto, ma anche la paura di non disturbare, il dolore e la spezzanza.

Lui è un bambino che deforma e altera le parole prima di imparare, come ogni bimbo, a parlare. Forse è una delle poche cose che lo accomunerà a tutti gli altri bambini, perché diventerà grande prima di loro, per un disegno dell’universo un po’ angusto: suo padre l’ha abbandonato.

E questa precoce sofferenza gliela suggeriva già la storpiatura che aveva riservato alla parola speranza: spezzanza. Pietro è un bambino spezzato, che la vita ha già dato in pasto a quello che si scambiano gli adulti. Che non è sempre bello, non è sempre buono – e naturalmente – non è mai a misura di bambino.

Per Pietro è difficile pensare a suo padre durante la sua infanzia, perché lui non c’è. Appare ogni tanto, lo porta a prendere un gelato, ma non è in tutte le cose che Pietro sente; non c’è nemmeno quando impara ad andare in bicicletta. C’è un altro papà, ma non è il suo.

“Pedalavo e sapevo che c’erano quelle mani… essere genitori è esattamente questo, essere lì, mani sui fianchi, accompagnare la vita e poi a un certo punto togliersi, ma in quel togliersi esserci ancora.”

Poi a Pietro, che non è più bambino, arriva una telefonata da Tenerife. Suo padre sta morendo. L’uomo che c’era ma non c’era, l’uomo di cui lui ha addosso qualche lineamento, l’uomo che aveva un linguaggio d’amore diverso da quello di cui lui aveva bisogno – proprio lui – è nel letto di un ospedale.

Pietro parte.

Ed è in questo viaggio che mette in discussione tutti i non detti, tutto quello che l’ha avvicinato e l’ha allontanato da suo padre, guardando a mente lucida tutte le motivazioni che l’hanno fatto sentire meno figlio, meno padre, meno.

Nell’accettazione e nel perdono, negli spigoli di una vita intera, Pietro scala quel muro così indistruttibile che si era costruito per autodifesa, e nel sudore di quest’immensa e insormontabile fatica, alla fine della scalata, del dolore, dell’incomunicabilità palpabile che esiste tra un padre ed un figlio, arriva in cima. Forse guardando su capisce che anche se le stelle non si vedono di giorno, è scienza che ci siano. E allora, prendendola scientificamente, come se fosse parte del disegno più naturale dell’universo, esattamente come il suo dolore, capisce che se qualcuno non ci ama nel modo che vorremmo, non vuol dire che non ci ami.

È scienza.

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