Giorgio Strehler, il ragazzo di Trieste. Cristina Battocletti: «Fu uomo europeo, nel senso teatrale e politico»

by Anna Maria Giannone

Un teatro umano, nella storia, affamato di vita: questo il senso profondo del suo mestiere secondo Giorgio Strehler. Nasceva a Trieste nell’agosto di cento anni fa una delle figure più iconiche del Novecento la cui idea di “teatro d’arte per tutti”, strumento reale di crescita collettiva, ha innovato radicalmente la visione culturale del secolo scorso.

Una vita consacrata all’arte e alla politica che Cristina Battocletti, giornalista e scrittrice, ripercorre nel libro “Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, morte e miracoli.” (La Nave di Teseo), biografia appassionata che dipinge la figura del più grande regista teatrale del ‘900 attraverso gli incontri, le battaglie, le tantissime collaborazioni artistiche. Il percorso inizia a ritroso, da quel Natale del 1997 in cui l’Italia si risvegliò consapevole che una grande epoca culturale era finita. Sullo sfondo di una Milano travolta dagli scandali di Tangentopoli si chiudeva la parabola di una storia iniziata nel dopoguerra, dalle macerie di un paese pronto a ripartire. Qui Strehler riuscì nel 1947 a fondare, assieme a Paolo Grassi, il primo teatro pubblico in Italia, al palcoscenico di quel Piccolo Teatro affidò la sua ricerca sui testi dei grandi autori – Carlo Goldoni, Anton Čechov, Bertolt Brecht – in quella stessa platea perseguì strenuamente l’idea di un pubblico ampio, che arrivasse fra gli operai, nelle scuole, nelle periferie. Un esempio di grande democrazia che fatichiamo a ritrovare del nostro tempo e di cui Cristina Battocletti ha parlato nel corso dei Dialoghi di Trani.

Noi di Bonculture l’abbiamo intervistata.

Il titolo del suo libro mette in primo piano l’origine triestina di Strehler, che ruolo ha avuto nella sua vita questa città?

Strehler si individua soprattutto come un milanese, a Milano ha costruito la sua carriera e ha molto amato questa sua città del lavoro. Però Trieste ha lasciato un’impronta fondamentale nel suo percorso: Strehler non sarebbe stato il regista che è stato senza quella città. La prima traccia di questo rapporto fondamentale la si trova nell’attenzione all’utilizzo della luce: Strehler aveva nei suoi spettacoli un senso fortissimo della luce, troviamo spesso nei suoi lavori un candore che riprendeva dai palazzi bianchi di Trieste, e una particolare attenzione alla rifrazione della luce, propria del mare su questi palazzi. Di Trieste Strehler conservò sempre l’impronta mitteleuropea: fu uomo europeo, nel senso teatrale e politico. Sua madre era croata, suo nonno montenegrino, la nonna francese e il papà austriaco, questa origine ebbe un ruolo anche nelle sue capacità musicali. Trieste era una città con un rapporto con la musica molto forte, tutti i bambini del mondo slavo asburgico venivano messi subito su uno strumento. Strehler studiò pianoforte e grazie a questa familiarità con la musica fu considerato uno dei più grandi registi d’opera perché, proprio per la sua abilità nel leggere le partiture, sapeva far recitare benissimo i cantanti: una caratteristica che lo rendeva unico.

Con Andrea Jonasson

Il libro è popolato di tantissimi personaggi che ruotarono attorno alla figura di Strehler. Molto spazio è dato alle tante figure femminili che ebbero un ruolo nella sua vita, a partire da sua madre.

Strehler era un uomo affascinantissimo, ha avuto tantissime storie d’amore. Tutte le donne che ha incrociato hanno avuto un valore importante anche nella sua vita professionale, per questo ho deciso di dedicare dei capitoli del libro anche a questo aspetto. A partire dalla mamma, violinista: lei diede a Strehler l’impronta musicale ma gli insegno anche l’umiltà, essendo di origini semplici. Ornella Vanoni ebbe sicuramente un ruolo importantissimo, è stata la sua prima creatura totale: Strehler fu demiurgo di questa donna più giovane che incontrò alla scuola del Piccolo, di cui capì le grandi potenzialità nella voce. Per lei creò il filone delle canzoni della mala, canzoni che raccontavano del vissuto popolare milanese ma erano studiate a tavolino assieme a geni come Dario Fo, Fiorenzo Carpi. Poi ci fu la sua prima moglie Rosita Lupi, coreografa del Piccolo Teatro, sua compagna di scuola. Andrea Jonasson fu sicuramente la sua grande musa, avevano 20 anni di differenza e con lei Strehler ritrovò la speranza di un amore rinato, anche in virtù d questo suo legame con il mondo tedesco. Valentina Cortese fu invece una sua pari. Lei era molto più famosa di lui quando si incontrarono. Con lei avevano lo stesso tipo di teatralità, sia per un comune tratto umano sia dal punto di vista professionale, si scontravano molto ma si amavano profondamente perché erano sulla stessa lunghezza d’onda. Ho voluto raccontare nel libro di queste e di tante altre donne perché ognuna di loro segnò un progresso nello Strehler artista, perché furono non solo sentimentalmente importanti.

Fra i tanti rapporti nella vita di Strehler, significativo e quasi avvolto da un’aura mitica fu quello con Paolo Grassi. Cosa rese la loro collaborazione così solida e proficua?

Innanzitutto, erano due teatranti, l’uno nordico e mitteleuropeo, l’altro mediterraneo, meridionale. Li univa la famiglia del teatro. Grassi ha protetto Strehler per tutta la vita e Strehler non poteva fare a meno della grandezza intellettuale di Grassi. Fu un connubio quasi indissolubile che rimase acceso per tutta la loro vita, anche quando si staccarono nel ’68. Si conobbero ai Filodrammatici, Strehler come attore e Grassi come assistente di Tumiati, l’uno era già artisticamente formato, l’altro si preparava a inventare quella che fu per la prima volta in Italia la figura dell’operatore teatrale. Facevano enormi liti, erano entrambi uomini di grandi passioni, mercuriali, però sapevano riconoscere l’uno la grandezza dell’altro. Paolo Grassi non rinunciò mai a seguire le prove degli spettacoli di Strehler, e lui a dire la sua sull’organizzazione del teatro. Entrambi si diedero veramente per la vita culturale del paese, con dei necessari personalismi certo, ma in una relazione solidissima. A un certo punto dovettero lasciarsi perché, sopraggiunta la maturità, le loro personalità preponderanti avevano bisogno di definirsi. Furono due uomini di teatro, nel teatro la cui origine geografica opposte gli ha uniti ancora di più.

Per entrambi la cultura aveva un fondamentale ruolo politico.

Erano due convinti socialisti. Una parola che oggi fa quasi paura. Loro erano socialisti perché credevano che ci dovesse essere una condivisione profonda della cultura per far crescere il paese. Nel dopoguerra si unirono a una figura meravigliosa, il sindaco di Milano Antonio Greppi, un esempio vero anche per il presente. Impegnato nella ricostruzione di una Milano ridotta a macerie, Greppi si adoperò a far rinascere scuole, ospedali, alloggi trasporti me anche La Scala, perché era l’anima della città, il tempio della musica e della laicità. Greppi decise di dare a questi due ragazzotti, poco più che ventenni, la responsabilità di un luogo n cui si potesse fare un teatro d’arte per tutti, in modo che la gente dalle periferie potesse arrivare nel centro e attraverso la cultura migliorare la propria vita. Un’assunzione politica del teatro che legò fortemente Strehler e Grassi.

L’idea di un teatro d’arte per tutti attraversò gli spettacoli di Strehler, riusciva davvero a parlare a un pubblico ampio?

Quello era il suo più grande obiettivo. Pensiamo all’Arlecchino, in assoluto lo spettacolo più importante del Piccolo Teatro a livello internazionale, con una tournée arrivata ovunque, dalla Cina agli Stati Uniti. Là Strehler faceva parlare innanzitutto la bellezza, i costumi, l’acrobaticità dei personaggi: riusciva a parlare con un linguaggio universale. A un certo punto entrava in scena una serva con una chitarra che cantava “Gero al banchetto”, la canzone di un poveretto che si trova ad andare in prigione senza aver fatto nulla. In quel momento Strehler metteva in scena la rivoluzione dell’uomo che non conosceva i propri diritti, dell’operaio meridionale degli anni ‘50 che cominciava a prendere atto della sua statura di essere umano, a rivendicare le cose di cui aveva bisogno. Nel periodo di Tangentopoli Arlecchino a un certo punto diceva “Beati i tempi in cui c’era gente onesta!” e là veniva giù il teatro… Teatro d’arte per tutti era questo, un teatro che trasmetteva la bellezza, la sensibilità, la grandezza degli autori, soprattutto del 700, assieme a messaggi di rivendicazione sociale: la bellezza universale assieme a uno strumento politico di presa di coscienza dei propri diritti.

La narrazione inizia dal giorno del funerale di Strehler. Un momento quasi di frattura nel mondo culturale italiano. Che eredità ha lasciato al paese?

Io sono arrivata a Milano a novembre del ‘97, lui è morto a dicembre dello stesso anno. Ricordo quanto i giornali abbiano lasciato spazio per pagine e pagine alla scomparsa di questa figura: un uomo di teatro impegnato per ricostruire la società. Quel funerale fu allora uno dei pochi trasmessi dalla rete nazionale, ci fu enorme la partecipazione dei milanesi: oltre 5000 persone vennero a dargli tributo. Con quella morte ci fu una cesura nel mondo culturale, il, teatro ea cambiato, con Strehler era finita l’epoca in cui lo spettacolo aveva anche peso politico, ogni suo debutto lo aveva avuto. Oggi la funzione del teatro è residuale, la cultura è una specie di giullare di corte della politica e lo si vede dal fatto che i fondi dedicati al teatro durante la pandemia sono state prebende, elemosina. Con Giorgio Strehler è morta l’idea di una cultura come sentinella della politica e della società. Milano sullo sfondo di quel funerale non era più la città dei lavoratori, delle fabbriche, ma era la Milano della finanza. Il paese era cambiato, la cultura era definitivamente diventata un intrattenimento.

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