Gli anni Ottanta e la Lecce ideale di “Il posto di Dio” di Loredana De Vitis. «Racconto storie con libertà, ironia e leggerezza»

by Sara Valentino

Lecce, fine anni Ottanta. È qui che Marta, la protagonista del romanzo “Il posto di dio” di Loredana De Vitis edito da Collettiva, cerca la consapevolezza della sua crescita interiore facendosi spazio tra gli schemi chiusi della provincia e la religione intesa non come spiritualità, ma come potere che spesso limita le scelte libere e costringe inconsciamente ad accettare il corso delle esistenze. Il dubbio di ricevere o meno il sacramento della Cresima si legge già nelle prime pagine; Marta seduta nei primi banchi della chiesa di San Paolo, durante le prove del coro, confida all’amica i primi approcci sessuali con il fidanzato Riccardo e proprio nel preciso istante in cui pronuncia la parola pene il piede sinistro del Crocifisso si stacca, provocando un forte boato.

Anche se “il posto di dio” è quello di Marta, nel romanzo si intrecciano le storie di personaggi che la accompagnano verso la consapevolezza attraverso le loro esperienze di vita; è così che, partendo da un punto di vista personale si arriva a una visione più universale di libertà, quella di cui molto spesso gli adulti sono privi perché ancorati nella rigidità del sistema. Loredana racconta la realtà quotidiana delle persone normali, senza giudizio, mettendo tutti sullo stesso piano umano con le paure, le incertezze e il coraggio delle scelte.

Attraverso le persone e i personaggi descrivi Lecce, ti stacchi dalla fredda descrizione geografica dei dettagli e racconti la città con le storie personali e la cultura in cui sono immersi i protagonisti.

“È una Lecce più ideale che reale, la descrizione dei pochi luoghi non è perfettamente aderente alla realtà e i posti di cui parlo in effetti non esistono: San Paolo è inventata, infatti a Lecce non c’è una chiesa con quelle caratteristiche, ma è un mix di varie chiese, o anche Piazza Resistenti si ispira ovviamente a Piazza Partigiani. Quello che racconto è più un clima generale piuttosto che la città, Lecce come un setting ideale, non geograficamente definito. Sono sicuramente i protagonisti che compongono la storia e questo perché, secondo me, i personaggi e le persone sono un tutt’uno con il luogo in cui abitano. Questa costruzione, da un punto di vista creativo, non è come ambientare uno scenario a teatro o su un set cinematografico, per cui tu giri una scena e ci metti dentro i personaggi; io non lo faccio perché noi non viviamo così, non ci caliamo nei posti stando al di fuori eai luoghi in cui viviamo e quindi nel raccontare i personaggi per me è importante descriverli nella loro tridimensionalità”.

La protagonista è Marta, un’adolescente che sta per ricevere il Sacramento della Cresima anche se non ne è pienamente convinta; in realtà tutti i personaggi che ruotano intorno a lei sono descritti in maniera così minuziosa che possono considerarsi anch’essi protagonisti, ciascun lettore potrebbe identificarsi con quello più affine.

Il percorso di Marta verso la consapevolezza di sé avviene in un contesto sociale e il romanzo è strutturato in modo che il lettore/la lettrice siano onniscienti ed entrino in una dinamica corale che accompagna la scelta individuale della protagonista. Questa coralità dà un senso ai legami tra le persone, anche i più indiretti; nella storia racconto di tante persone che tra di loro non sono così legate ma insieme, come in una consequenzialità di rapporti, alla fine finiscono tutte collegate a Marta. È vero non spicca in maniera così forte una protagonista, ma perché anche Marta non è un’eroina, non è una super donna, ma è una ragazza come noi che deve fare delle scelte che potrebbe fare chiunque; si trova in un ambiente dove esistono alcune dinamiche che tutti prima o poi abbiamo incrociato. Questa possibilità di conoscere dinamiche personali, sociali e umane è qualcosa che trovo parecchio affascinante da raccontare”.

Nonostante il romanzo sia ambientato negli anni Ottanta ricorda molto la cultura e la società di un sud Italia che oggi, per certi versi, è rimasto ancora uguale a trent’anni fa.

Chiamiamolo processo di emancipazione che, a oggi, non è ancora concluso; ho un interesse per quel periodo perché prima di tutto gli anni Ottanta non sono quelli che sono descritti in maniera più diffusa (non sono solo Berlusconi e consumismo) perché in una provincia erano un’altra cosa, però quello è stato il momento in cui alcune dinamiche fisse hanno iniziato a sciogliersi e ad aprirsi, questa tendenza verso un’emancipazione non si è mai conclusa, continua ancora. In molti luoghi troveremo delle persone che vanno in crisi per gli stessi motivi, sia donne che uomini, problemi che cercano di risolversi nelle stesse modalità perché non abbiamo ancora finito questo processo di “trattativa” con l’autorità, con la religione come istituzione. Non parlo di spiritualità perché i personaggi del romanzo ce l’hanno, il punto non è la spiritualità ma il potere; combattere il potere dall’interno della propria vita, perché è proprio sul personale che questo potere incide e di cui ti vuoi liberare (sia per le donne che per gli uomini)”.

Non parliamo di essere atei.

Qui non è questione di essere atei, è più difficile di quello che si pensi; si tende a fare questa semplificazione come se la non pratica religiosa significhi necessariamente essere atei; in realtà esiste una religiosità che è molto più articolata e complessa di quella che si possa immaginare”.

Questo potere della religione di cui parli incide molto, soprattutto in quegli anni, nei rapporti amorosi e non solo, ma anche oggi nella cultura del sud si percepisce una forte rigidità.

La fluidità molto semplice dei rapporti tra le persone non è ancora codificata bene, in comunità come le nostre questo genera dolore, sofferenza e problemi mentre le nostre generazioni sono più avvezze ai cambiamenti dei rapporti amorosi, pur mantenendo una religiosità di base. Questo aspetto è molto interessante da descrivere perché la parrocchia o comunque l’ambiente della religiosità è qualcosa di molto più ampio delle regole e degli estremi che vengono raccontati, come il fatto che i gay non possono sposarsi, i divorziati che non possono ricevere la comunione. Queste regole, di cui si parla anche in maniera mediatica, sono lontane dal vissuto di persone religiose, che sono tantissime, e che cercano un compromesso con la propria vita. Dentro la figura di Giuseppe questo conflitto esplode perché lui è il massimo della religiosità, ha una fede incrollabile, per lui tutto va in un certo modo perché deve essere così. E proprio lui ad un certo punto si rende conto che la vita è molto più dirompente rispetto a quello che si era immaginato: l’emblema tra il convincimento teorico e la pratica di ciò che accade”.

Nel romanzo racconti di tante donne, tutte diverse e tutte molto libere, coraggiose.

Sia Olga che Roberta che Serena sono per me un arricchimento, credo che ci sia una ricchezza nei personaggi femminili che deve essere raccontata senza giudizio. Io non giudico le persone e non lo faccio nemmeno quando le racconto. Sono persone che vivono fuori dagli schemi chiusi; se si prende in considerazione zia Roberta che parla male dei vecchi che accudisce, pur svolgendo bene il suo lavoro, non vuol dire che sia una cattiva persona, magari non è accogliente come ci si aspetta che una donna debba essere. Ma anche Olga che non ha voluto fare la madre; Serena che con tranquillità si fa i cavoli suoi. Non c’è alcun giudizio morale, sia per gli uomini che per le donne. Anche se per le donne è sempre molto più difficile, perché c’è sempre questa patina di pregiudizio per cui una protagonista femminile è giudicata bene o male a seconda della sua corrispondenza a uno schema. Non concepisco questi schemi perché inaridiscono la narrazione e il modo di raccontare l’umanità”.

Soprattutto la scelta di Olga, del non voler essere madre…

È evidente questa contraddizione tra ciò che ci si aspetta da lei e ciò che lei ha vissuto; ammette qualcosa che dà l’idea di questa possibilità che spesso alle figure femminili si nega. È un’esperienza molto più diffusa di quello che si pensi, però non viene raccontata abbastanza. C’è la possibilità che una persona non sia pronta o preparata o non abbia proprio voglia di essere madre”.

“Il posto di dio” è il primo romanzo della collana “Orlando” di Collettiva, la casa editrice guidata da Simona Cleopazzo. Come nasce il rapporto con Collettiva e come mai il nome Orlando?

In passato ho lavorato con piccoli editori, ma provengo da molti anni di autoproduzione; poi ho incontrato Collettiva, una casa editrice per lo più femminile che accoglieva la mia sensibilità, i miei presupposti politici e artistici. Nato subito un legame con le editrici ho proposto questa mia idea di creare una collana che potesse accompagnare sia cose mie sia cose che ho in mente per il futuro. Orlando è un palese riferimento a Virginia Woolf una storia in teoria autobiografica, ma in pratica un’autobiografia falsa, nel senso che c’è dentro sia invenzione sia un mescolamento di piani tra la storia che evolve, la narratrice che la racconta e il giudizio di chi la scrive. Oltre al mescolamento di piani c’è anche un mescolamento di generi, autobiografia ma anche narrazione e a me questa libertà così radicale di questo romanzo è un punto da cui partire, libertà dagli schemi. Poi c’è anche l’ironia che il mio mood di base con cui racconto sempre le storie, la penna della scrittrice è potente e ha questa potenza creativa anche per volare leggera sulle cose più serie. Questa leggerezza per raccontare di tutto è una fonte di ispirazione continua; l’idea è quella pubblicare tutte storie con questi presupposti: libertà, ironia e leggerezza, le tre parole chiave di questa collana”.

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