Gli effetti invisibili del nuoto. I racconti di Alessandro Capponi

by redazione

Uscirà giovedì, per i tipi di Hacca Edizioni, la raccolta di racconti di Alessandro Capponi, “Gli effetti invisibili del nuoto” (160 pagine, 15 euro). In questi dieci racconti contenuti nel libro c’è un tema ricorrente: il nuoto. Per le creature umane presentate dall’autore, questo sport diventa un gioco liberatorio, un approfondimento del sé, una salvezza o una scoperta che modificherà – nel profondo – il vissuto dei personaggi.

Con uno stile lieve, trasparente e pieno di misura e tatto, Capponi accompagna il lettore in un percorso di conoscenza profonda dei suoi protagonisti, illuminando con delicatezza e grazia le fratture e le fragilità in un racconto che non nasconde il lato più tenero degli esseri umani. bonculture anticipa un racconto del libro di Alessandro Capponi.

La gatta regina

Quando arrivava, ogni giorno a metà mattina, sempre seduta sulla sediolina blu più vicina al vetro, quando arrivava e si sedeva là, ogni mattina, scatenava una serie di movimenti minimi, apparentemente casuali, ai quali nessuno, meno che mai lei, faceva caso. Eppure c’era sempre qualcuno, e sempre di sesso maschile, che usciva dall’acqua per prendere un attrezzo, qualcuno che si arrampicava da pipistrello sul bordo della vasca per esercitare gli addominali, qualcuno che interrompeva l’allenamento per andare in bagno. Tutti, ovviamente, gettavano occhiate rapide e nascoste verso di lei, quello mentre prendeva la tavoletta, quell’altro mentre avvicinava il mento alle ginocchia, l’ultimo mentre usciva dalla bolla di vetro e, in costume come si trovava, la cuffia in una mano, scivolava bagnato di fronte alla spettatrice, assidua e distratta. E bellissima, con una luce orientale, spesso elegante come se dovesse sedersi in un palco dell’opera. Invece se ne stava sulla sediolina di plastica blu, sola, via via sempre per maggior tempo, ultimamente per delle ore. Chissà quanti anni aveva, certo non era più una ragazzina ma non era possibile dedurre di più da quelle ore nelle quali lei, osservatrice osservata, veniva a sedersi appena oltre l’acquario. Nessuno sapeva niente di lei, neanche il nome, ma ciò con ogni evidenza non impediva ai maschi, spesso quand’erano sotto la doccia, di parlarne. A volte era citata in conversazioni con soggetto sottinteso, e senza commenti, L’hai vista? Sì ma oggi è andata via subito.

La gatta regina, la chiamavano. Andò avanti così per un bel po’, tutto si ripeteva identico, ad eccezione dei suoi vestiti che, come presto notò Laura e via via molte delle nuotatrici, cambiavano senza mai ripetersi, tutti bellissimi, tutti di tessuti puri, pregiati, naturali. Tranne i vestiti, comunque, un giorno dopo l’altro tutto veniva replicato come un film muto di poche scene, la donna che arriva e si siede, osserva distratta, pensa a chissà cosa, scatena reazioni di tentato avvicinamento, rimane immobile fino a quando non si alza, raccoglie la borsa dalla sedia accanto, va via senza voltarsi, come in un addio, come se non dovesse tornare. Invece, tornava sempre.

Poi una volta Barbara le si sedette accanto senza preavviso: uscì dalla vasca e bagnata com’era si accomodò sulla sediolina di plastica blu proprio là accanto, senza parlare sorridere fare cenni d’alcun tipo. Ansimava e basta, Barbara, stravolta dalla fatica. Si era fermata senza poter fare altro: ma doveva solo raggiungere lo spogliatoio, mangiare una banana, non era preoccupata: la gatta regina là accanto era l’ultimo dei suoi pensieri. Eppure, dopo quella volta, lei fu l’unica, mese dopo mese, ad avvicinarsi un po’, in conversazioni brevi e gentili, sorrisi e saluti, offerte di disponibilità per qualsiasi tipo di aiuto in vasca, se mai la gatta regina avesse deciso di provare. E forse fu per quegli inviti di Barbara ma un giorno prese la borsa dalla sedia accanto come d’abitudine, nell’ultimo gesto prima di andarsene, e salì le scale con passo deciso, ma una volta in cima imboccò la porta degli spogliatoi. Dopo qualche minuto tornò in vasca, superò con gesti prudenti le porte a vetri, dopo tutti quei mesi trascorsi senza mai aprirle: costume bianco da mare, schiena nuda, gambe ambrate e lunghissime; ai piedi calzava delle scarpe da scoglio, ballerine di gomma bianca, che pure, per quanto buffe, non riuscirono a stemperare la serietà di quella bellezza.

Scelse un giorno, un momento, nel quale in vasca c’erano poche persone, entrò nella corsia due tuffandosi a candela, la mano sinistra a chiudere il naso. Prese subito a nuotare, a dorso. Era elegante anche in quello, morbida e sinuosa nel portare indietro le braccia tese, magre, da danzatrice. Nuotò poco a dorso, dodici vasche, duecento metri, poi uscì dall’acqua in un movimento, oplà, simile a com’era lei così senza vestiti, elastica, e andò diretta verso gli attrezzi e tornò velocemente in acqua, tuffandosi a candela, col naso chiuso da una mano; con l’altra, portò in acqua due palline di plastica.

Con una pallina in ciascuna mano nuotò a stile libero e ancora a dorso: muoveva le braccia vorticosamente, e però, come remi senza la parte piatta, contribuivano ben poco allo scivolamento. Era un mulino fantasma, per quanto facesse roteare le pale sembrava quasi che tutto rimanesse fermo. Eppure andò e tornò, i gesti frenetici e la velocità ridotta, e ancora ancora e ancora.

Nuotò per quasi due ore, sempre in quel modo; quando uscì, da qualche metro di distanza lanciò le palline dove le aveva prese, in fondo alla rete della porta capovolta della pallanuoto, e si dileguò.

Prese a nuotare ogni giorno, sempre nello stesso modo, e sempre mantenendo la medesima distanza dagli altri che aveva costruito quand’era seduta dietro alla porta a vetri, sulla sediolina blu. E comunque, volta dopo volta, come chi vive in una città d’arte e fatalmente smette di meravigliarsi della bellezza che costeggia ogni giorno, così i nuotatori smisero di interessarsi a lei: la gatta regina era diventata una nuotatrice, e la trasformazione che le era toccata in sorte l’aveva fatta normale, pesce in un banco di centinaia d’esemplari.

E così come cominciò a nuotare, smise: un giorno alla fine dell’allenamento si accovacciò ai piedi della sediolina bianca di Barbara. Guardava la piscina e parlava a voce bassa, quasi sussurrava. Barbara della fine di quel discorso non perse una parola, ma dell’inizio sì, non sentì quasi niente. Ora, Barbara: era a metà del suo primo divorzio, era preoccupata dalla reazione della figlia quindicenne, voleva solo uscire da quella piscina e andare a casa, a parlarle, a spiegarle, voleva capire – sua figlia, se stessa, quel bisogno che provava di allontanarsi dal marito – ma invece era stata costretta a lavorare, e aveva indossato la muta come sempre quando era in fase di rigetto, quando l’acqua per lei diventava affilata, e solo toccarla la feriva, e così inizialmente non si accorse proprio della gatta regina ma quella con il suo tono da confessione pur se parlava un italiano fluido aveva gli accenti tutti sbagliati e fu per quelli che Barbara si destò dai suoi pensieri, e poco dopo si sorprese ad ascoltare con molta attenzione, quasi che il discorso la riguardasse direttamente, Non so, una mattina ero là fuori a guardare e mi sono ricordata di qualche vita fa, quando ho imparato il crawl, e dell’esercizio che mi facevano fare, questo con le palline nelle mani, che allora serviva per trovare l’assetto, la linea retta di pancia e gambe sull’acqua, e però ho pensato che era proprio come mi sentivo dopo la morte di mio marito, senza un pezzo di me, e con quelle palline tra le mani ero davvero me stessa, amputata come mi sentivo, e dopo qualche mese, vasca dopo vasca, quell’esercizio mi ha insegnato a esistere anche senza un pezzo, o almeno credo, o almeno spero.

Barbara si alzò e la abbracciò con la sua mole morbida e consolatoria, e quella si sentì quasi schiacciare, e rise, e andò via subito dopo nel suo modo, senza voltarsi. Barbara si rimise seduta e le sembrò di sentirsi appena meglio. Così di scatto si alzò, sfilò la muta con furia, prese due palline di plastica e si tuffò.

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