Gli studi sull’amore di Franco Arminio: «Chi è follemente innamorato comprende la prossimità con il finire»

by Felice Sblendorio

Franco Arminio sfugge alle definizioni. Piuttosto, opera per accumulo: poeta, ma anche paesologo, intellettuale militante, cantore della lentezza, studioso della geografia interna. È anche un fenomeno pop, popolare: è un poeta molto letto, citatissimo sul web.

La sua poesia, però, non nasce e non arriva dai social, ma ci approda e, attraverso questi mezzi, si diffonde: la prospettiva è diversa. Ora esce un suo nuovo libro, più maturo e denso: “Studi sull’amore” (Einaudi, 184 pagine, 16.50 euro). Si cimenta con il sentimento più cantato dai poeti, scrivendo versi brevi come respiri, parlando di sesso, morte e fragilità. E sognando un corpo abitato dal sacro, infiammato dall’amore e perseguitato dalla morte. bonculture ha intervistato Franco Arminio.

Arminio, i suoi Studi sono esercizi, tentativi, quasi mai definizioni. Solo la poesia può tentare di indagare l’inspiegabilità del sentimento?

La poesia si è sempre occupata di amore e un poeta che scrive poesie sull’amore è completamente nel già scritto, perché è impossibile dire una sola cosa nuova sull’amore. Ma il sentimento è un concetto sfuggente, come Dio, a cui si tende senza mai capire realmente cosa sia. È sempre qualcosa da definire e ridefinire. Come la poesia, in fondo: la si scrive perché non si raggiunge mai, perché è qualcosa da venire. La poesia arriva quando la lingua ci sfugge.

L’amore è sia illusione che incanto, scrive. Rarità, oggi?

Viviamo in un mondo disincantato, dissacrato. Il capitalismo ha sacrificato la dimensione dell’incanto e dell’ingenuità che sono aspetti primari dell’amore. L’amore sfugge al calcolo della convenienza: l’ossessione della nostra società. L’amore è in conflitto con questo tempo.

Lei canta un amore sacro, sensuale.

Parlo di amore sacro che non appartiene solamente all’anima, ma anche all’amore carnale. Non è un sentimento basso: c’è altezza nel corpo e anche l’anima può essere molto bassa. Bisogna unire le due cose. Amore non è fare più sesso, ma coltivare questa difficile arte della sensualità, questo uscire da sé stessi, questa magia dell’incontrarsi. Il mio è un grande elogio della grazia dei corpi.

Amare è anche saper attendere, coltivare il tempo giusto?

Ho avuto la fortuna di aver vissuto incontri rari, dai tempi lunghi. Questa attesa rendeva tutto profondo. Oggi ci sono incontri veloci in cui ognuno rimane al suo posto: ognuno incontra solamente il suo corpo. Ci teniamo intimamente lontani sia dal nostro corpo che dal corpo dell’altro. È un incontro povero.

Oggi l’amore viene sempre più classificato, definito. Lei scrive che l’amore non si amministra. Perché la libertà dell’amore ci spaventa?

C’è un’ossessione a produrre norme, definizioni, paletti, cornici, però sappiamo bene che sono cose molto fragili. L’amore, come la vita e la morte, va un po’ dove vuole. Le grandi cose della vita sono sempre un po’ violente, imprevedibili. Noi possiamo controllare le piccole cose o i dettagli, ma ci sfugge l’essenziale.

L’amore ci rende fragili, ci denuda. Lei esalta il coraggio della fragilità: perché bisogna diffidare del porto sicuro?

C’è tutta una retorica che ci vuole sicuri, vincenti, distanti dalla morte, dalla malattia. La nostra forza, invece, è proprio nel coraggio di essere fragili, di spezzarci al primo colpo di vento. Esporci alla fragilità aiuta anche gli altri a fare lo stesso: ci guardiamo in maniera più realistica, ci avviciniamo. Oggi, invece, ognuno diventa il monumento di sé stesso, ma è una forza sterile. Io ogni giorno rifletto la mia fragilità e la poesia è una postura vera della mia vita. Bisogna confessare la propria fragilità, anche perché è logorante esporre una forza che non abbiamo.

Bisogna mostrare la crepa, che gli altri possono allargare.

Se vuoi che la crepa venga chiusa, la devi esporre. L’amore è sempre un lavoro di questo tipo: non esiste un amore in cui le persone si mostrano autosufficienti. Il luogo dell’amore è sempre un po’ anche il luogo del dolore.

L’amore apre all’imprevisto e l’incontro con l’altro è, soprattutto, l’incontro con l’oscurità dell’altro. L’amore non è mai un luogo sicuro?

C’è sempre un gioco di esposizione alla potenza dell’altro. L’altro ti può salvare, ma ti può anche nuocere. Spesso facciamo pseudo incontri in cui mandiamo avanti una nostra controfigura per evitare di farci male. Invece, bisogna lottare con il proprio corpo, con tutti i rischi. Anche il fatto che non accada un incontro è un rischio: ci condanna alla noia, alla stanchezza. Non amare è rischioso.

Anche smettere di amare. L’avverbio sempre, molto spesso, accompagna le nostre promesse di amore. L’amore non ha paura di sfidare l’eternità?

Ci si ama per poter dire quelle parole. Un amore che non pronuncia queste parole forse non merita la parola amore. Alla fine, è una meraviglia e uno sgomento. Sì, è uno sgomento non sentirci più amati. Molte violenze degli uomini accadono perché non c’è un’educazione allo sgomento. Bisogna amministrare lo sgomento di una persona che ti voleva amare per sempre e ora non più.

L’amore è sempre un po’ il fratello della morte, scrive. Perché avverte questa prossimità?

L’amore e la morte sono in conflitto continuo, ma si parlano da sempre. È una colluttazione che ha come spazio il nostro corpo. Ospitiamo questa battaglia fra amore e morte. Pensiamo che si possa uccidere la morte per far trionfare l’amore: ma è una falsità edificante, non realistica. Chi è follemente innamorato comprende questa prossimità con il finire.

«La poesia arriva dalla luce/nascosta nella polvere». La sua poesia da dove arriva?

Qualunque pericolo, malessere o piega distorta della giornata io cerco di addrizzarla con la scrittura. Non vado in chiesa, ma addrizzo con la scrittura le ossa, il sangue: è un mio tentativo di guarire, per calmare l’inquietudine, per riparare la crepa. È un gesto fallimentare, però. La crepa si chiude e si riapre continuamente. Nell’amore affidi il tuo corpo e le tue paure pensando che l’altro ti possa salvare, ma nessuno ci può salvare completamente. Non c’è mai una salvezza definitiva, sono sempre provvisorie. L’amore è il luogo in cui l’altro ha ancora un peso. Per questo, credo, che questo libro sia anche un libro politico.

Nella sua poesia, infatti, coesistono sia la politica che l’intimità. Sono i suoi sguardi sul mondo?

Sì, potremmo dire che ci sono due fili: uno diurno, combattente, politico e di testimonianza civile, e uno notturno, contemplativo e malinconico. In me questi due fili sono presenti, ma non sono atteggiamenti. Con la scrittura non si può imbrogliare: sono due fili sinceri, apparentemente lontani, che attraversano il mio corpo.

La sua poesia, nel tempo, è diventata una cura dello sguardo.

Ho conquistato nel tempo lo sguardo sull’altro. Non è importante il mio sguardo, ma è importante l’esattezza dello sguardo sul tuo corpo, sul tuo amore. Io sono un operaio che ti pulisce i vetri affinché tu possa guardarti meglio. Il poeta è un lavatore di vetri.

Lei da tempo è alla ricerca di un popolo a cui appartenere. Un’urgenza atipica per un poeta.

È un punto molto rischioso. Molti lo leggono come un esercizio pubblicitario. Si pensa che il poeta debba scrivere per allontanarsi dal mondo, e che i lettori debbano cercare il poeta, ma per me non è così. In me non si spegne la voglia di pronunciare l’inquietudine, di incrociare l’altro.

Come se lo spiega il successo di un poeta come lei in un Paese che non legge poesia?

La parola è sempre relativa: io non ho successo. Un poeta avrà successo quando accadrà quello che dovrebbe accadere in un mondo normale, ovvero parlare di poesia come si parla di calcio, di moda o di Salvini. La poesia dovrebbe diventare molto più presente, se ne dovrebbe parlare a tavola. Per me si sta avverando una profezia: credevo di essere in grado di scrivere poesie sia per gli addetti ai lavori che per un pubblico popolare. Sta succedendo che il pubblico popolare è arrivato, ma ho perso un pubblico colto che mi rimprovera dell’arrivo degli altri.

È il solito sospetto italiano del successo?

In Italia siamo specializzati. Se qualcuno ha successo significa che è falso, che ha allungato il vino con l’acqua. I miei libri sono pop, ma sono libri di poesia. Serve malafede per considerarla come poesia nata in rete. Io, però, mi batto affinché la poesia diventi qualcosa che stia nel mondo, come tante altre cose. Amo poeti difficili, ma la poesia è una cosa quotidiana, domestica. È qualcosa di straordinario che non si può ridurre ad arte combinatoria delle parole.

Si sente estraneo alla comunità letteraria italiana?

No, perché non esiste più una comunità letteraria. C’è pigrizia, non si analizza mai nulla, ma si tende all’esclusione. Ogni scrittore, poi, vuole appartenere alla sua di comunità. Ed è triste, perché la letteratura si fa per appartenere, per fare comunità. Io non credo allo scrittore che deve rompere: ma cosa bisogna rompere? È già tutto rotto, sconquassato, isolato. È illusoria la postura di chi si ritiene alternativo. Oggi si deve ricostruire un centro, non si può più cercare l’esilio.

Si considera una persona amata?

Non so se si può parlare di amore, forse più di gratitudine. I miei lettori hanno un sentimento di riconoscenza, come se si sentissero aiutati. Ma questo accade a loro: io, invece, non mi sento mai sicuro, in pace. In questo momento mi sento amato, ma non mi compiaccio, non mi riempie il consenso. La mia infermità è tutta viva, non sono guarito.

È un caso disperato?

Lo sono, ma è la profonda verità della mia vita. Per questo cerco nella poesia un gesto di amore per gli altri. Io questa nota consolante non la trovo disdicevole. Siamo qui per consolarci, perché siamo sventurati che devono morire: questa è l’unica cosa chiara. La poesia non deve negarsi alla consolazione. Ogni giorno deve lenire un dolore. Una cosa non da poco, credo.

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