Grande Meraviglia di Viola Ardone e la libertà di fallire e deludere i padri per trovare il proprio spazio adulto

by Antonella Soccio

Scrivere non serve a niente, serve ad esistere

Viola Ardone

Con “Grande Meraviglia”, edito da Einaudi per la collana Stile Libero Big e candidato al Premio letterario nazionale I fiori blu, Viola Ardone chiude la trilogia del Novecento, iniziata col fortunatissimo best seller Il Treno dei Bambini e proseguita con Oliva Denaro.

Questa volta la formidabile scrittrice e docente partenopea si concentra sui primi anni Ottanta, quando la psichiatria italiana e le strutture di diagnosi e cura erano alle prese con la difficile attuazione della Legge Basaglia, la 180, entrata in vigore il 13 maggio del 1978, quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse.

È nel manicomio di Napoli, chiamato letterariamente Fascione, ancora aperto e in via di liberazione, che Viola Ardone introduce il suo splendido personaggio, Elba, una ragazzina nata e cresciuta dietro i cancelli, per via del ricovero di sua madre, che tutti dicono morta, ma che è soltanto in un reparto per malati gravi e irrecuperabili, inebetita e divenuta irrimediabilmente oligofrenica a furia di elettrochoc. È la struttura stessa che fa impazzire. La chiusura rimpicciolisce il cervello e le anime.

Siamo dunque negli anni della rivoluzione della psichiatria, che ha tentato di abbattere i muri del pregiudizio sociale e dello stigma rispetto alla malattia mentale, restituendo dignità di persona ai malati fino ad allora confinati, internati.

Sono gli anni di Marco Cavallo, la statua di cartapesta triestina di Basaglia, che nel romanzo diventa il Lello Cammello, immaginario di Elba, fatto di una mazza di scopa e un secchio.

Siamo negli anni in cui l’ideale libertario di un pezzo di psichiatria in lotta con i tradizionalisti delle scariche elettriche e della contenzione fisica (tutt’ora in uso massicciamente dopo 46 anni dalla Legge) e farmacologica cercava di cambiare la modalità escludente della società. Rinchiudere e nascondere i pazzi non fa sentire più sani.

Non poteva quindi mancare nel romanzo il ritratto di un medico psichiatria basagliano, Fausto Meraviglia, che porterà il manicomio di Elba e della sua Mutti verso la transizione fino alla trasformazione finale in CIM, Centro di Igiene Mentale, o SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) e cambierà il modo di vivere dei pazienti, dimettendoli uno a uno. In mezzo c’è tutto il rapporto terapeutico tra Meraviglia ed Elba. Con trasfert e controtransfert a gogò e pure una inevitabile proiezione edipica padre-figlia. “Tu sei la figlia che mi sono scelto”, le dice e si dice Meraviglia più di una volta.

Il romanzo è scandito in tre parti, tre sezioni temporali. Nella prima, la più originale e riuscita, conosciamo Elba e la sua vita dentro il manicomio, con le altre compagne di stanza, le infermiere, il dottore capo incline al ricorso all’elettricità; nella seconda Elba instaura il legame con il dottor Meraviglia ed è tutto un racconto di come si trasformavano le strutture, con partitelle di calcio nei cortili, i vestiti invece delle camicie di forza o i pigiami e tutto l’armamentario umano e culturale dei medici rivoluzionari oggi divenuti no restrain, che chi un po’ mastica o ha masticato per traslazione la materia psichiatrica, di pillole, corde e psicoterapia, conosce e riconosce nel testo.

Meraviglia cerca di “salvare” Elba, la iscrive all’università, la immette quasi con violenza nella sua famiglia nella casa di Posillipo, immagina per lei un futuro nella psichiatria, in una relazione, che uscita dal setting terapeutico, si proietta fuori come accade a tanti medico/pazienti e come è in Gustav Jung e Sabina Spielrein, ma solo in modo filiale, senza carica sessuale. Ogni psichiatra nella sua carriera si innamora, anche solo platonicamente e familiarmente, di una sua Sabina. Da riportare nella società sana.

La terza e ultima parte invece si focalizza sulla vecchiaia di Meraviglia, è centrata ai tempi nostri. Il dottore, solo e abbandonato, senza più un pubblico, parla con il gatto, con gli organizer elettronici, manda messaggi vocali. I suoi due figli naturali ed Elba hanno scelto di deragliare dai progetti pensati per loro. Meraviglia, sulla soglia dei 75 anni, straparla dei suoi istinti suicidari, progettando la sua fine col botto, il giorno di San Silvestro perché il primo gennaio è il suo compleanno.

Me ne sono andata per il solo motivo che porta i figli via dai genitori: all’ombra del tuo albero era difficile trovare uno spazio per diventare grande”.

O anche: “Deluderti è stato il prezzo della mia libertà. Andarmene è stato il modo per essere tua figlia fino in fondo”.

La morale finale del romanzo insomma è tutta racchiusa nella libertà del fallimento, in una società in cui non ci si può più ammalare, non si può essere fragili, non si può sbagliare e anche morire è un mezzo reato, l’unica vera libertà che ci si può concedere è fallire, senza sensi di colpa.

Un’idea del tutto contraria a quella del matematico inventore della Teoria dei Giochi John Nash, che pazzo lo è stato per davvero, e secondo cui l’unica vera guarigione è tornare a produrre, a fare. Uscire dall’inerzia fallimentare in cui un cervello in fuga confina la creatività e le relazioni ingabbiate dalla rabbia e dall’assenza di perdono per sé e per gli altri.

La grandezza però del romanzo di Viola Ardone non è nel messaggio, ma nella lingua utilizzata. Sopratutto nella prima parte, la scrittrice riesce a rendere con incredibile efficacia il linguaggio dei folli, fatto di associazioni, neologismi, frasi e rime pubblicitarie, jingle e analogie poetiche.

Addirittura riesce a restituire alcuni tic della follia, come quello della necessità di bagnarsi continuamente capo e arti con l’acqua gelida per rallentare il flusso sanguigno, la febbre delle allucinazioni e le emozioni.

«Io desideravo che Elba, la ragazzina nata e cresciuta in manicomio- ha detto Ardone a bonculture- avesse un linguaggio tutto suo particolare, riconoscibile e quindi ho creato un impasto linguistico che prendesse un po’ dalla cultura pop degli anni Ottanta, perché ho immaginato che passasse parecchio tempo della giornata davanti al televisore e quindi apprendesse da lì come era la vita fuori dal manicomio, ma che avesse anche il linguaggio della filastrocca e della poesia per questo suo animo bambino, un modo per contrastare la violenza del luogo manicomiale in cui si trova, raccontarsi delle fiabe».

L’esattezza nel descrivere alcune manifestazioni della malattia mentale, come la depressione o i disturbi dell’alimentazione, fa immaginare che la scrittrice abbia avuto accesso al patrimonio documentale dei manicomi italiani. Nel corso della presentazione a I fiori blu ha ammesso di aver conosciuto la malattia mentale nella sua famiglia.

Ardone racconta: «Via via si stanno facendo degli studi degli archivi e sulle cartelle cliniche delle persone internate negli anni e sopratutto delle donne che venivano internate molto spesso senza un motivo legato alla salute mentale ma solo perché ritenute delle irregolari dai loro mariti, da un padre, da un fratello che avevano su di loro la patria potestà. Ne vengono fuori tantissime storie che hanno come comun denominatore una grandissima sofferenza e ingiustizia. Quella che racconto io è una storia di immaginazione che però si basa su alcuni presupposti molto verosimili».

Infine Fausto Meraviglia. «È un personaggio che ho desiderato molto narrare, volevo creare un uomo di mezza età che sta entrando nella fase senile e che fosse un insieme di contraddizioni, con un grande vitalismo ma anche con una certa malinconia e un cinismo nel guardare la sua storia, fatta di grandezza ma anche di piccolezze e bugie, di inadeguatezza nel suo ruolo familiare di padre e marito. Mi piaceva giocare sulle sue contraddizioni e non creare la figura di un santo o di un eroe, ma di uno che è stato sia un eroe nel suo lavoro e nella sua battaglia, ma anche un uomo molto manchevole. Mi piace la libertà nel fallimento, sentirsi liberi di fallire, di essere fragili, delicati, a volte imperfetti, sentirsi soli e nonostante tutto percepire una meraviglia che c’è anche nel fallimento, la meraviglia della caduta».

Le foto sono di Samuele Romano

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