«I giovani abitano un tempo sbriciolato in micro-attività senza respiro». Il tempo senza storia di Adriano Prosperi

by Felice Sblendorio

Il tratto, nella voce come nella scrittura, è dotto, analitico, indignato. Adriano Prosperi, storico e professore emerito di Storia moderna alla Scuola Normale di Pisa, con “Un tempo senza storia” (Einaudi, 128 pagine, 13 euro) lancia il suo accorato grido d’allarme contro la distruzione del passato, l’oblio della storia, la marginalizzazione dello studio e della professione di chi analizza le tracce antiche immaginando quelle future. I libri, come ha scritto Adriano Sofri sul Foglio, non provocano più le rivoluzioni, ma scritti come questo sicuramente vivacizzano un dibattito culturale stanco, piatto, autoriferito.

Prosperi, in questo orizzonte senza storia, si sente marginale, disorientato dalla scomparsa delle memorie del passato e di tutte quelle realtà come la famiglia, i partiti, la scuola, i sindacati e le fabbriche che, nel tempo, hanno custodito quelle tradizioni. Un patrimonio identitario sfumato e dissolto in un presente che confonde, ignora e cancella, minimizzando ogni timido progetto di speranza. bonculture ha intervistato Adriano Prosperi.

Professore, questo orizzonte senza storia quando nasce?

Nasce nel 1989: il crollo del Muro di Berlino cancella la competizione fra due grandi sistemi con la vittoria del modello democratico-liberale-occidentale. All’epoca sembrò che fosse finita la storia come lotta, come conflitto. Ci si aspettava una pace durevole come conseguenza della fine della storia. Si entrò, invece, in una zona controllata dal neoliberismo con una finanza internazionale, aiutata da una condizione di sudditanza dei cittadini, libera di muoversi tranquillamente sul mercato del mondo. Un mondo dominato da quel capitalismo della sorveglianza teorizzato da Shoshana Zuboff. Le potenze economiche sono riuscite a concentrare nelle proprie mani le leve finanziarie innescando due rivoluzioni: gli investimenti in Paesi dove la manodopera fosse meno cara e una visione totalizzante delle capacità informatiche.

Ma in che modo abbiamo distrutto il nostro passato?

Il sapere storico perde importanza nel momento in cui termina il conflitto politico. La mia provocazione nasce perchè la storia è in crisi: l’insegnamento è scomparso dalla formazione scolastica e la costruzione della memoria sociale – che maturava all’interno delle famiglie, dei luoghi di lavoro e di studio, dei partiti politici e delle tradizioni operaie – si è indebolita. La memoria sociale non c’è più. Non la coltiva né la famiglia, né tantomeno la scuola. Le nuove generazioni sono affidate a una scuola che ha dimenticato la storia. Così, dopo la formazione, questi giovani sono intrappolati in una prospettiva futura in cui manca un percorso, una tradizione, una memoria del passato.

Una generazione senza prospettive future?

I giovani abitano un tempo sbriciolato in micro-attività senza respiro. Ignorati dal mercato del lavoro, senza poter vedere in prospettiva un futuro lavorativo, la possibilità di progettare famiglia, figli, abbandonati all’incultura e alle ossessioni di un presente senza sbocchi. I giovani si ritrovano ad ascoltare, ad esempio, la ritrovata attualità delle follie razziste. C’è un dato inquietante che riporto in questo pamphlet: il 15,6% della popolazione italiana – secondo gli ultimi dati Eurispes – crede che la Shoah non sia mai esistita. Nel 2004 era il 2,7%. Attorno alla Shoah, in questo decennio, sono cresciute le teorie negazioniste, e sono ritornate le più facili follie razziste e antisemite. La distruzione del passato, e la crisi della storia, hanno prodotto questo.

La storia, in un presente così teso, cosa ci può indicare ancora?

La storia è la storia della liberazione dell’umanità dalle sue debolezze, ma non possiede ricette, previsioni: in questo senso non esiste una storia maestra di vita. Non potrei certo profetizzare cosa accadrà quando usciremo dalla pandemia, ma posso solamente augurarmi che tutti gli errori fatti dai governi di tendenza populista e neoliberista che hanno sfasciato università, scuola e strutture sanitarie pubbliche e cancellato i diritti dei lavoratori vengano sanati. La storia attualmente può indicare poco. Forse una nuova strada nascerà da queste generazioni di disoccupati, sfruttati, dai popoli che affondano nel Mediterraneo. Questa somma di debolezze, disperazioni e ingiustizie potrebbero coalizzarsi. Penso sempre a quello che immaginava Marx: le classi subalterne un giorno avrebbero rovesciato il sistema capitalistico, espropriando i pochissimi possessori e distribuendo quelle risorse per tutti. Quel giorno non è mai arrivato, nonostante abbia animato partiti, movimenti, generazioni.

Non c’è più tempo, oggi, per le rivoluzioni? 

Le rivoluzioni fanno parte della storia, come i profeti. Come e dove nascano è difficile capirlo. Stiamo vivendo un presente in cui è complesso intravedere un orizzonte futuro. La mia è una denuncia, una protesta: non è una diagnosi. La speranza, come diceva Walter Benjamin, nasce quando si cerca di ricordare che se siamo nati è perchè qualcuno ha sperato che noi potessimo realizzare ciò che chi ci ha messi al mondo non è riuscito a fare. Siamo nati dal desiderio di proiettare una speranza al di là di noi stessi e dei limiti della propria vita. Io sono nato in un mondo contadino dove quest’attesa era molto forte: si sperava nella rivoluzione della cultura. Con l’arrivo del lavoro, delle fabbriche e del benessere queste speranze sono state dimenticate. Ciascuno ha pensato ad arricchire se stesso. Le forme organizzate di protesta, e la grande speranza di tipo messianico, si sono adagiate nel benessere. Che è stato una benedizione, ma ha creato le condizioni per uno smarrimento totale delle nuove generazioni.

Intrappolati in un eterno presente, la speranza è un’illusione, un miraggio. La luce del futuro fortifica la storia?

Dovrebbe. La speranza fortifica la storia in una situazione di salute civile. Poco prima della vigilia della pandemia da covid-19, ad esempio, i libri di saggisti e storici intravedevano una realtà muoversi in continue e maggiori conquiste. Qualcuno, azzardando, ha parlato di un’umanità capace di raggiungere l’immortalità. Subito dopo un virus invisibile ha messo in crisi il mondo. Aver dimenticato la storia, la prospettiva della storia, ci ha resi impreparati. Da decenni la vita è stata minacciata da epidemie di questo genere, ma all’epoca la scienza medica si era solidificata in sistemi sanitari forti, ramificati. Oggi, invece, tutto è privatizzato, indebolito. Combattiamo questa emergenza con una debolezza che nasce anche da una dimenticanza storica. Nel mondo moderno non esiste la storia come fonte d’esperienza, ma solamente un’ideologia efficientista incapace di far fronte alla realtà.

La ricerca storica a cosa mira?

È una scommessa sull’avvenire. Le correnti storiche che tratto in questa breve rassegna hanno un elemento in comune: la visione del passato nata in un momento problematico del presente. Si scopre così qualcosa che non si sapeva, lasciando da parte la convinzione e il modo di rappresentare quel problema così come si faceva nella civiltà precedente.

Lo storico, invece, attualmente chi è? Prima legittimava il potere, era una guida per la politica…

Lo storico, nello Stato nazione, era il maestro della politica. Si occupava di politica, formava i politici. Lo Stato Nazione elegge lo storico come storico dello Stato. Per J.G. Droysen alla cattedra della storia si andava per imparare la politica: lo storico di cattedra era colui che insegnava, mentre l’uomo di Stato era lo storico pratico, colui che metteva in atto gli insegnamenti dello storico teorico.

Quando svanisce questo ruolo?

Crolla con la fine della dimensione statale del potere in Europa. I conflitti fra Stati portano alla Prima e alla Seconda guerra mondiale con il crollo dell’idea di storia come politica. Nascono così forme di ricerca storica non solo non obbedienti al potere, ma spesso obbligate a delegittimare il potere. Secondo Wolfgang Reinhard lo storico oggi è chiamato a delegittimare il potere, non a educare i popoli all’obbedienza e a morire per la patria. 

Per anni ha insegnato Storia Moderna alla Scuola Normale di Pisa. Quando è entrata nella sua vita la storia?

È difficile dirlo. Non immaginavo di fare questo mestiere. Sono nato fra l’occupazione tedesca e la Liberazione e ho sentito il racconto delle memorie familiari e ho vissuto quell’accesissima passione politica. Poi ho letto molto. All’inizio pensavo di specializzarmi in letteratura, filosofia, ma ho trovato dei docenti che hanno cambiato il mio sguardo. È stato come entrare in una bottega cercando di seguire la scuola dell’artigiano più bravo. La storia è trasmissione di passione e curiosità, ma anche trasmissione di un mestiere. L’artigiano più bravo, che sa insegnare meglio, forma studenti appassionati. Da lì nasce anche il confronto con altre botteghe artigiane: si costruisce un dialogo con altri artigiani che scavano nella conoscenza gallerie simili o differenti, nello stesso o in altri Paesi…

Lei arrivava da un mondo contadino, umile. La Normale fu il punto di partenza del suo riscatto?

È stato un incidente di percorso. Volevo fare l’università, perchè prima avevo fatto la scuola media e il liceo classico. È stata un’esperienza importante perchè la Normale, rispetto alle altre università, era differente. Si arrivava a 18 anni, si sceglieva un tema di specializzazione e bisognava preparare una relazione. Preparavamo gli esami come impegno secondario, perchè quello principale era mettere alla prova la nostra capacità di fare ricerca. Un modello straordinariamente positivo.

Sembra una favola del passato. Luigi Ambrosio, rettore della Normale, ha denunciato una crescente estrazione sociale degli studenti. L’ascensore sociale si è definitivamente rotto?

Non credo, francamente. Stimo molto il rettore, ma penso che il tema dell’ascensore sociale non riguardi tanto chi arrivi in un’università di qualità, ma coloro che frequentano scuole non all’altezza della loro funzione. Oramai ci sono università in città dove non c’è una tradizione di studio, mancano biblioteche e laboratori, o peggio ancora ci si laurea con collegamenti a distanza. In Italia ci sono università ovunque e, se si nasce in città medie, ci si trova di fronte università di stampo cittadino. Questo non ha favorito la qualità delle stesse università e degli studi.

Possedere un sapere è una conquista del passato?

Chi vuole ascendere socialmente non percorre più la via degli studi come si faceva nella società contadina. Il possesso di un titolo di studi – per la mia generazione – era fondamentale. Significava avere capacità di leggere, capire, trasmettere. Oggi ci sono percorsi più rapidi, la Normale si è limitata ai pochi, mentre i molti non finiscono neppure l’università perchè, nel frattempo, trovano situazioni o lavori più semplici per vivere. Il sapere è stato scoraggiato da tutti, anche dalle autorità politiche. Si è detto: non perdete tempo, il vostro tempo è prezioso, impadronitevi di un mestiere. Ci ritroviamo così un tempo senza speranza che ha incentivato le migliori intelligenze alla più totale passività. Un delitto.

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