“I morti sono attirati dalla scrittura”: le Due Vite di Emanuele Trevi

by Felice Sblendorio

C’è il taglio esatto dell’esistenza nelle pagine che Emanuele Trevi ha dedicato ai suoi due amici scrittori Rocco Carbone e Pia Pera nel breve e splendido “Due vite” (Neri Pozza, 144 pagine, 12 euro). Non una celebrazione, né tantomeno una stanca agiografia, di due scrittori e amici – materiale umano difficilissimo da trattare senza cadere nelle trappole feroci della retorica a buon prezzo.

Ma Emanuele Trevi, in un denso esperimento letterario dove ogni parola è essenziale e scava un solco nelle fratture più comuni e indicibili delle nostre biografie, realizza un trattato umano (e vissuto) sull’amicizia, sulla scrittura e sulla morte. Le vite dei due protagonisti, morti prematuramente per una malattia e un incidente stradale, contengono la forma collettiva e individuale di quella strana partitura umana che è la vita, accumulando sulle loro figure tratti sovrapponibili dei nostri vissuti, incertezze, virtù e fallimenti. L’autore, evocando la scrittura come una forma di pacificazione sentimentale con i morti, protegge il ricordo di queste due vite esponendole al lavoro di scavo della letteratura: l’unica pratica che ferma l’onda rovinosa del tempo, che tutto sfuma e, a volte, cancella. Il morto, scrive Trevi, «è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che usiamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta». Così, le ombre di Rocco Carbone e Pia Pera, amici di Trevi dai tempi dell’università, ritornano in queste pagine, trovando nella prosa armonica e sentimentale dell’autore un luogo accogliente in cui il ricordo riesce a convivere con chi resta in un rapporto maturo, senza più dolore. bonculture ha intervistato Emanuele Trevi.

Due vite” è un libro difficile da definire: c’è la biografia e l’autobiografia, il ricordo personale e professionale di due amici e molte considerazioni riflesse sull’esistenza. Di sé cosa comprende attraverso le vite degli altri?

Non è che l’idea di «comprendermi» mi attragga più di tanto, a dire la verità. Se il gioco fosse quello di parlare degli altri per parlare di me, non credo che varrebbe la candela. Semmai, nei miei libri c’è uno schema narrativo abbastanza fisso: un narratore che manca di vitalità, è paralizzato dalla malinconia, ed è attratto da figure vitali, capaci di vivere la loro vita fino in fondo. Direi che ho trasformato un mio limite in una forma di racconto.

Rocco Carbone e Pia Pera sono al centro di questa narrazione di vita legata dal rapporto dell’amicizia. Cosa le permette di raccontare – a differenza dell’amore – un rapporto così sfaccettato, mai binario?

Mi trovo più a mio agio nelle storie di amicizia che nelle storie d’amore, anche come lettore. Non sono un temperamento romantico e non mi piace il sentimentalismo. Ma sono limiti personali, non giudizi sulle gerarchie degli altri.

Sembra che l’amicizia conservi sempre un non detto, una zona difficilmente condivisibile, un rimorso. È così?

Certamente, è così: non c’è nulla di male ma è così.

La giusta distanza dalle persone che racconta è il punto centrale di questo suo lavoro: avvicinandosi si nota l’incomprensibilità dell’esistenza, mentre allontanandosi le sfumature si assomigliano. Come si gestisce questa distanza?

Scrivendo e riscrivendo, non credo ci sia un’altra soluzione. Si va avanti e indietro.

L’esercizio della scrittura, però, è fatto anche di tempo. La distanza temporale, quando si cerca di raccontare quel che resta di una vita, è importante?

È importante capire quando è arrivato il momento di scrivere certe cose. Non è vero che la memoria inganna, almeno non è questa la sua caratteristica principale, semmai è vero che bisogna interrogarla al momento opportuno.

Si parla molto in queste pagine di quel demone in continuo agguato che è l’infelicità. Scrive che per arrivare al suo contrario, la felicità, bisogna avere minore attenzione verso sé stessi. Non è l’impresa più ardua per tutti noi?

Non bisogna mai sopravvalutare il proprio stato d’animo, perché è ingannevole.

La vita, però, è una somma di evoluzioni, di miglioramenti. Sono sempre visibili queste cesure personali?

No, perché saremmo sommersi di informazioni inutili. L’inconsapevolezza è uno dei motori della vita.

La scrittura è un mezzo buono per evocare i morti, afferma. Scrivendone cosa si esaurisce di quei fantasmi?

Non si esauriscono, perché altri li possono sempre vedere in maniera diversa.

La seconda vita, dopo la morte, è nel ricordo. La letteratura riempie quella mancanza solo quando non generalizza?

Se generalizza, è cattiva letteratura. L’individuo non sfugge certamente alle categorie collettive, ma le deforma fino a renderle inservibili.

Ma l’esperienza umana individuale e collettiva, in questi casi, non è sovrapponibile?

Non perfettamente sovrapponibile: per questo scriviamo e leggiamo.

Da tempo dichiara che non c’è più molto legame fra l’opera e la vita di chi l’ha prodotta. “Due vite”, soprattutto nella concezione irrimediabile dell’umano, cosa rispecchia della sua esistenza?

Non mi piacciono i libri che avrebbe potuto scrivere qualcun altro. Non mi piace il cosiddetto “talento”, non mi piace l’abilità impersonale.

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