Il coraggio delle donne di Dacia Maraini: «Il femminismo è la sola rivoluzione riuscita del Novecento. Le leggi stavano lì da generazioni, il femminismo le ha cambiate»

by Felice Sblendorio

Sembrano riaffiorare tante figure legate alle pagine più belle del Novecento guardando lo sguardo gentile e passionale di Dacia Maraini. Nei suoi occhi c’è il riflesso di molte persone amate: di chi ha scritto i libri della nostra formazione, di chi ha rivoluzionato i costumi, di chi ha combattuto con i corpi e la mente per una società più tollerante e libera.

Dopo tanti romanzi, teatro e scrittura apprezzata e riconosciuta, Maraini ritorna a ragionare sulle battaglie delle donne, sui diritti conquistati e sui simboli ancora da riformare in un dialogo con la giornalista Chiara Valentini dal titolo “Il coraggio delle donne” (il Mulino, 168 pagine, 14 euro). Partendo dalle battaglie del femminismo, le due intellettuali incrociano riflessioni pubbliche e private, collettive e individuali, in una costruzione di significati e senso capace di riassumere una storica lotta immaginando le orme da seguire nel futuro. bonculture ha intervistato Dacia Maraini.

In questo libro si parla di coraggio, virtù e di lotte. Ma qual è stato il coraggio delle donne più edificante?

In tutti i tempi della lunga Storia umana le donne hanno dimostrato coraggio. Ci vuole più coraggio a ubbidire che a comandare. Ci vuole coraggio a mantenere la propria dignità quando si è tacciate di tradimento, di perversione, di inferiorità per destino naturale.

Ha scritto di donne, ha lavorato con le donne, ha lottato per le donne.

Non mi sono occupata solo di donne. Forse è stato notato di meno, ma mi sono battuta per i senza tetto, per i carcerati, per i malati di mente chiusi in manicomio, senza fare distinzioni di sesso. Quello che mi spinge è il senso di giustizia che ho sempre avuto forte, sin da bambina. Le donne nella storia sono state trattate come esseri inferiori, escluse dal potere decisionale, considerate storicamente irresponsabili e incapaci. E questa la considero una grande ingiustizia. Per questo mi batto con l’arma che conosco meglio, la scrittura.

Lei è cresciuta con donne appassionate. Quanto hanno contato per lei?

Sono figlia di una donna di grande coraggio e generosità: mia madre Topazia che è morta a 102 anni, lucida e razionale come sempre. Ma sono anche figlia di un padre coraggioso e leale, che ha pagato per le sue idee, e che per me è stato un grande esempio.

Parlate molto di femminismo, di quell’unica rivoluzione riuscita del Novecento secondo Hobsbawm. Nel tempo questa parola si è quasi trasformata in un’offesa: qual è l’eredità più importante che porta con sé di quella stagione?

Sono d’accordo con l’autore del “Secolo breve”: il femminismo è la sola rivoluzione riuscita del Novecento. Non a caso tutte le leggi che riguardano i diritti delle donne e la parità di genere sono state cambiate dopo il femminismo. La parola femminismo, in effetti, ora suona male, e me ne accorgo quando vado nelle scuole dove incontro ragazze che rifiutano il termine, anche se poi ragionano in modo più radicale di me in fatto di diritti. Ma suona male perché è stata demonizzata, ridicolizzata da chi era spaventato dalla perdita di antichi privilegi. Non si pensa mai che quando si acquista un diritto, contemporaneamente qualcuno perde un privilegio, che sia di classe, di potere, di sesso: è sempre una lotta per il potere decisionale, sulla propria vita, sul rapporto con la realtà, sul rapporto con gli altri.

Le ideologie spesso svaniscono, ma che cosa ha mutato radicalmente il femminismo?

Tutto il sistema legale che riguardava la superiorità dei diritti maschili su quelli femminili, la dipendenza della donna in famiglia e nel sociale, le libertà negate, i tabù sessuali, la mancanza di rispetto e condivisione. Non è poco. Tutto sancito da leggi stavano lì da varie generazioni, sempre uguali, e nessun governo capace di cambiarle. Parlo del diritto di famiglia, della legge sulla violenza sessuale, del delitto d’onore, del diritto di aborto, del diritto all’accesso a tutte le professioni.

L’altra grande battaglia era quella contro la potenza sociale del capitalismo. Per uno sguardo femminista, era un sistema economico maschilista?

I sistemi economici non sono di genere, ma possono diventarlo se a decidere sono sempre e solo uomini, considerando per esempio il lavoro che le donne fanno in casa gratuitamente come un dovere naturale.

A ostacolare la libertà delle donne c’è ancora la violenza, il rancore, l’odio di certi uomini. Dall’inizio dell’anno contiamo già 10 femminicidi. Sono comportamenti reazionari?

Sono comportamenti tragici, tanto è vero che spesso gli uomini che uccidono le donne che dicono di amare, poi si suicidano. Ma si tratta di uomini deboli, terrorizzati dal perdere i privilegi del loro sesso; privilegi che considerano eterni e assoluti, come il possesso della moglie e dei figli, il dominio in famiglia, la libertà propria e il controllo geloso della compagna. Le nuove autonomie delle donne fanno impazzire gli uomini deboli che identificano la propria virilità con il dominio.

Ancora oggi manca un totale cambio culturale, simbolico. Perché i simboli sono così lenti da riformare?

Non lo so perchè siano così lenti. Ma le leggi si cambiano più facilmente che le mentalità di fondo, radicate nei più antichi strati culturali di una collettività.

Non basta – come richiede un femminismo liberale – avere più donne ai vertici, rompere il soffitto di cristallo?

Non basta, ma è pur sempre qualcosa. Quando le donne nei posti decisionali sono poche, finiscono per subire il ricatto dell’androcentrismo: devono mostrarsi seduttive, efficaci ma servili. Spesso la scelta è dovuta: o fai la seduttiva un poco scema (alla Marilyn Monroe che scema non lo era affatto, ma recitava una parte molto amata dagli uomini), oppure fai il maschiaccio accettando tutte le regole della competizione, della rivalità e della prepotenza che sono considerate prerogative vincitrici.

Per anni si sono giudicate le donne solamente per il loro corpo…

Una persona dovrebbe essere giudicata nella sua complessità: corpo, spirito, cervello, carattere, storia. Naturalmente il corpo conta, ma non può essere il solo modello di giudizio. Invece, purtroppo, tutto spinge affinché le donne si presentino e si facciano apprezzare solo per la loro presenza e non per le loro idee, il loro carattere, la loro personalità, il loro talento.

Allontanate l’idea di una superiorità femminile che guarda più alla natura che ai modelli simbolici. Ritornano in mente le parole di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, lo si diventa». Figlie della storia e non della biologia?

Sono assolutamente d’accordo con Simone De Beauvoir. Siamo tutti esseri umani alla nascita, solo dopo, con l’educazione e la formazione vengono fuori la divisione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli…

Lei è una delle scrittrici più lette e apprezzate. La disuguaglianza di genere è una problematica anche letteraria. Nei canoni, oltre alcuni classici, le donne dove sono?

Le donne ci sono sempre state in letteratura, anche se escluse dalla letteratura codificata. Per esempio, le mistiche hanno scritto pagine bellissime, ma sono sempre rimaste chiuse nei cassetti dei conventi. Nessun critico letterario le ha mai prese in considerazione. Eppure, cominciano a scrivere nel Medioevo e i loro scritti hanno decisamente un valore letterario autonomo.

Oggi voi scrittrici non vi vergognate più della scrittura femminile. Il femminismo ha spazzato via quell’inferiorità?

Non direi che fosse considerata inferiore la scrittura femminile: era semplicemente inesistente.

Il riconoscimento, però, non è ancora così immediato. Lei è una delle 11 donne ad aver vinto il Premio Strega in 75 anni. Perché resiste, nonostante sia vario e apprezzato, una sottorappresentazione dell’immaginario culturale femminile?

Perché viviamo ancora in una società patriarcale. Un poco corretta, dopo tante battaglie, ma per lo più basata sulla centralità maschile. Pensi alla grammatica con cui parliamo e scriviamo: il maschile è universale, il femminile è particolare. Pensi alla rappresentazione simbolica della divinità: esiste un Dio padre, ma non una dea madre. Maria è una mortale che è stata scelta per dare un figlio a Dio, ma Dio non la prende come compagna. Rimane sola in terra, accanto a un marito con cui non ha rapporti, molto più vecchio di lei. Dio è solitario e unico: “Io sono il tuo Dio e non avrai altro Dio all’infuori di me”. Da questa frase esclusiva viene fuori il concetto che la sacralità consiste in un triangolo costruito da un Padre eterno, un figlio a metà umano e uno Spirito santo. Non è poco per l’indirizzo del pensiero comune.

In questo lungo dialogo non manca una riflessione sull’aborto. La filosofa Luisa Muraro, voce storica del femminismo, ha dichiarato: «L’aborto non è un diritto: è un rifiuto, un ripiego, una necessità». L’aborto, storicamente, che cosa ha rappresentato per la libertà e l’autodeterminazione delle donne?

L’aborto, sono d’accordo con Luisa Muraro, è una libertà da schiave. Nessuna donna ama abortire. Si tratta di una violenza contro il corpo delle donne e contro un progetto di nascita. Ma le donne giustamente lo rivendicano perché riguarda la libertà di decisione sul proprio corpo, da sempre considerato proprietà altrui, chiuso dentro tabù, proibizioni, negazioni. Se si pensa che ancora trenta milioni di bambine vengono sessualmente mutilate ogni anno si può capire a che punto siamo della emancipazione femminile. L’Europa è un giardino fortunato che garantisce alcuni diritti di fondo alle donne, ma quanto sono costate e quanti secoli ci sono voluti per ottenerli? E c’è sempre qualcuno che vorrebbe cancellarli.

Dalla sua esperienza personale sono nati libri toccanti come “Un clandestino a bordo” e “Corpo felice”. Ha lottato ma non ha mai esultato per quel diritto, paragonandolo a un dramma e parlando spesso di maternità responsabile. Cosa ricorda dell’esperienza dell’aborto?

Del mio aborto spontaneo al settimo mese non ho voglia di parlare. Ne ho scritto abbastanza. Ora voglio solo dimenticare. Dell’aborto in genere ho scritto in “Un Clandestino a bordo”. Se le donne fossero veramente libere di gestire la propria sessualità, l’aborto non esisterebbe. Si praticherebbe una maternità responsabile: unica alternativa all’aborto.

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