«Il culto dell’Io non ci salva. Riprendiamoci il Noi». Il senso della vita di Monsignor Vincenzo Paglia dopo la pandemia

by Felice Sblendorio

La democrazia, scriveva John Dewey, comincia con una conversazione. La vita, invece, matura e respira con un dialogo: verrebbe da dire così leggendo Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente(Einaudi Stile Libero, 200 pagine, 16.50 euro), l’ultimo libro di Luigi Manconi, sociologo, editorialista, già parlamentare e di Monsignor Vincenzo Paglia, arcivescovo e Presidente della Pontificia accademia per la Vita.

In un dialogo arguto, sincero e divertente, Manconi e Paglia si confrontano su una ricerca pratica e quotidiana del senso della vita, toccando temi che vanno dalle libertà ai diritti, dall’autodeterminazione al desiderio sessuale, dal peccato all’eutanasia, dalla pandemia alla prigione narcisistica e chiusa dell’Io. Due visioni dell’esistenza che tendono, pagina dopo pagina, a confermare il dubbio, ma quasi mai ad arginarlo. Sia Paglia, dal suo fronte religioso, che Manconi, totalmente immerso nel magma sociale e militante, si liberano e si dimenticano della ricerca della verità; nel tentativo profondo, invece, di cercare un senso: comune, collettivo, capace di «limitare il disonore» e «fare scacco alla solitudine». bonculture ha intervistato Monsignor Vincenzo Paglia.

Il senso della vita” è un dialogo fra lei, un «piccolo credente», e Luigi Manconi, un «pococredente». Più che una conversazione sul senso, è una ricerca del senso della vita. In questo incontro il senso è nell’altro, in quella diversità che non si trasforma mai in una frontiera del pensiero, dell’umano?

Il dialogo ci cambia, e nel concreto sia Manconi, sia io, siamo cambiati. Ci siamo capiti, abbiamo avvicinato le nostre posizioni, senza appiattirle, ‘dialettizzandole’. Da parte mia non volevo “convertire” Manconi. Mi interessavano le sue posizioni e nel dialogo, sempre, si scopre la ricchezza interiore di ognuno. Il dialogo è l’essenza dell’incontro e del ruolo della Chiesa, che propone la fede, non la impone.

Ragionate molto su un senso della vita quotidiano, concreto, oserei dire politico. In quali e in quante scelte ordinarie, minime o morali incrociamo l’autenticità di questa ricerca?

Sono tutte le scelte, piccole e grandi, della nostra vita quotidiana, che fanno vedere la “qualità” umana di una persona. Del resto, l’impegno a far corrispondere la fede professata con la vita vissuta è lo stile di vita dei veri credenti. È il Vangelo a farci seguire questa strada. Certo, oggi molte questioni sono complesse. Pensiamo ai temi dell’ambiente, all’economia, alle tecnologie che impattano sui temi della salute allungando la vita (per i più fortunati in Occidente) e aprendo problemi inediti su cure palliative, fine vita, tentazioni eutanasiche. Serve oggi uno “scatto” di creatività da parte di tutti. C’è bisogno di più riflessione e di più formazione, insomma di una nuova alleanza. Il Covid-19 ci ha mostrato che siamo tutti fragili e tutti collegati. Da qui una maggiore corresponsabilità degli uni verso gli altri.

Manconi si definisce un «pococredente» che riconosce al fatto religioso una sua importanza: ma qual è, dal suo punto di vista, lo sguardo più profondo che la religione può offrire all’uomo di oggi?

Per parte mia sono un “piccolo credente” che però ha ricevuto una grande visione che esemplifico in due aspetti. Il primo: siamo tutti fratelli e sorelle con un solo Padre, Padre Nostro. E quindi una nuova visione dell’umanità: un’unica famiglia in una pluralità di storie e di culture che marciano verso un unico destino. Il secondo è, appunto, la comune destinazione: la resurrezione della “carne” ossia di noi tutti e della stessa creazione, cieli e terre nuove. È un potente messaggio di fiducia, di spinta a guardare avanti, ad impegnarci nel nome del Vangelo in vista dell’eternità. Fa tremare i polsi, ma è il compito dell’umanità su questa terra.

Con Manconi vi ritrovate sul concetto di carità: che è una virtù dimenticata? Lei condanna la dittatura dell’Io, immaginando una salvezza collettiva solo se si riuscirà a riscoprire l’indispensabilità dell’altro.

Lo abbiamo visto in tempi di pandemia: rispettando le regole salvo me stesso e tutelo l’altro. Riscopro la dimensione del ‘noi’ che abbiamo perduto. È necessario mettere da parte quella dittatura dell’individualismo che ci fa vivere in un mondo effimero, autoreferenziale, mentre siamo tutti collegati, siamo ‘animali’ sociali. Il culto dell’Io non ci salva. Riprendiamoci il “Noi”.

In questi mesi abbiamo riscoperto anche l’intreccio vitale che ci lega agli altri, ma avremo la capacità e la volontà di immaginare e costruire una comunità più armonica oppure, come sottolinea Manconi, il contagio produrrà una depressione di massa e una compressione della nostra idea di mondo?

Il libro inizia proprio con una nostra riflessione sugli effetti sociali e personali della pandemia. Abbiamo avuto ed abbiamo una straordinaria occasione per riflettere su chi siamo, sul nostro modello di sviluppo, sulle disparità che avvelenano le nostre società ed i rapporti umani. La Chiesa lo ha detto chiaramente con quella straordinaria immagine di Papa Francesco solo in Piazza San Pietro, vuota, la sera del 27 marzo 2020, una sera di pioggia. Siamo sulla stessa barca, ma non nello stesso modo: chi sta comodo, chi è aggrappato ai bordi, chi guida e chi soffre. È una metafora straordinaria della situazione dell’umanità. Dobbiamo impegnarci, altro che deprimerci. Abbiamo una spinta a fare di più e meglio per ognuno di noi, per tutti. Siamo sulla stessa barca, lo abbiamo visto in tempi di pandemia, è una realtà non una metafora.

Questi sono stati due anni di morte solitaria e dolorosa, come sottolineate nel libro. Che cosa ci ha rivelato questa prossimità riscoperta con una morte che tendiamo sempre più ad allontanare?

Non a caso il libro si intitola “Il senso della vita” e nei diversi capitoli si declina secondo molteplici dimensioni: la pandemia e la responsabilità, la vita e la vita oltre la morte, il senso del dolore e della sofferenza, il significato dei rapporti umani e della libertà, e molto altro ancora. La morte solitaria e dolorosa ha colpito gli anziani, ad esempio, chiusi nelle case di riposo. E i figli hanno sofferto pene indicibili, riscoprendo aspetti dei rapporti umani tra le generazioni. Ma anche i bambini e i più giovani hanno sofferto, chiusi in casa. Ecco allora cosa abbiamo capito: l’importanza dei rapporti, l’alleanza necessaria tra le generazioni, tra giovani, adulti, anziani. È un fatto nuovo. Non dimentichiamolo.

Scrive in questo dialogo: «È pure vero che tanti, troppi, comunque non sanno più stare accanto a chi muore. Non abbiamo più le parole per consolare». Ma come si trovano, e cosa devono spiegare, le ultime parole della nostra esistenza?

C’è anche una responsabilità della Chiesa oltre che dell’intera società. I cristiani debbono riscoprire la predicazione sulle “cose ultime”. Come ha detto anche Papa Francesco nell’udienza generale del 26 maggio. Abbiamo l’impressione che il negativo vinca. Quando preghiamo per qualcosa e non accade nulla. Sembra inutile la nostra preghiera? No, non dimentichiamo che per i cristiani la realtà “ultima” non è la morte di Gesù in croce. Ai discepoli sembrava fosse avvenuta la fine del mondo, del loro mondo. Ma era la realtà “penultima”. Poi è avvenuta la Risurrezione. Come uomini e donne di Chiesa è necessario predicare la speranza cristiana, fondata sulla certezza della Risurrezione.

Il sociologo Bauman sosteneva che i riti funebri ci aiutano a rimuovere i morti dal mondo dei vivi, facendo ritornare alla vita chi sopravvive. Nella prima fase della pandemia, però, il rituale collettivo del funerale non è stato concesso.

Per tutta la società, in Italia e non solo, la pandemia è stata – ed è ancora – uno shock. Ci siamo privati della nostra umanità verso i malati, verso i defunti. Le regole della sicurezza sanitaria hanno prevalso. Dobbiamo uscirne più forti e capaci di ri-mettere al centro le relazioni umane.

Lei si occupa della popolazione anziana, la più colpita dalla morte per Covid-19. La vecchiaia è un momento della vita che tendiamo a eliminare dal nostro sguardo, forse perché prossimo alla morte. Come dovremmo riconsiderare questo tempo che non è più esclusivamente un momento di congedo?

Purtroppo, c’è poca riflessione sulla vecchiaia. Viviamo, almeno in Italia, venti o trenta anni in più, ma non sappiamo come. Dobbiamo scoprire il senso della vecchiaia, non come naufragio ma come un’età preziosa. Non è più l’età in cui essere messi “da parte”. È il tempo di nuove attività, di una nuova consapevolezza nei rapporti interpersonali. Ed è preziosa anche nella debolezza che prende il corpo: ricorda a tutte le altre età che siamo comunque deboli. Per questo richiede una sua spiritualità che va riscoperta.

Nel dialogo riecheggia, e accomuna lei e Manconi, il vecchio «I care» di Don Lorenzo Milani. Oggi, che cosa dovremmo tenere a cuore?

Le relazioni vanno messe al centro, sempre e ovunque. La vita è relazione e dialogo con gli altri e con Dio. Anche la morte lo è, è dialogo, è accompagnamento, è dolore e allo stesso tempo speranza. Ora che stiamo forse uscendo dal periodo più critico della pandemia dobbiamo fare tesoro di questa lezione. Non dobbiamo riprendere a vivere ‘come se’ non fosse accaduto nulla. Il “senso della vita” è qui: consapevolezza, compassione, desiderio del futuro, sguardo verso l’alto, verso l’altro e verso il basso per avere a cuore il futuro del pianeta, nostra unica ‘casa comune’ da proteggere e tutelare.

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