Il denaro evaporato: Walter Siti fra “Pagare o non pagare”

by Felice Sblendorio
Walter Siti, ph

Dal 1994 ad oggi, ovvero da “Scuola di Nudo” a “Bontà”, uno dei migliori scrittori italiani che risponde al nome di Walter Siti, ha tratteggiato, fra ossessioni, manie e distopie, una grande autobiografia collettiva dei desideri delle società occidentali. Una prova di scrittura e di racconto della realtà unica nel suo genere, al limite massimo fra il personale e il pubblico, il reale e il distorto.

Una delle sue ultime opere è “Pagare o non pagare. L’evaporazione del denaro” (Nottetempo, pp. 144, € 12,00), pamphlet autobiografico sull’evaporazione del denaro e su quella società in dissolvenza fortemente caratterizzata dalla possibilità di utilizzare i “soldi” come forma di rappresentazione sociale, di status. Il libro, una trattazione più interessante sotto il punto di vista della fenomenologia sociale che della macroeconomia, è un percorso che scava all’interno della biografia privata di Siti per analizzare il presente e sottolineare le differenze con la sua generazione e il suo ceto sociale che, praticamente, ha coltivato un rapporto e un desiderio (tutto occidentale) quasi magico dell’atto del pagare.

Il tema del “denaro”, non nuovo per i lettori più attenti, è una delle ossessioni che accompagna da sempre la vasta narrativa dell’autore modenese. Un tema che ha attraversato la sua vita come racconta nel libro, dalla prima busta paga estiva all’Enel al suo principale lavoro come docente universitario. Una condizione raccontata anche nella conversazione con Annalena Benini, giornalista de “Il Foglio”, contenuta nel libro “La scrittura o la Vita” (Rizzoli, 2018), dove lo stesso Siti ha raccontato il suo rapporto con il denaro e il suo esordio da scrittore, cominciato seriamente solo dopo aver ottenuto quella famosa stabilità economica garantita dalla docenza universitaria. 

Siti in queste pagine racconta di quell’io compratore per raccontare la sua generazione e un rapporto con il denaro, dopo molte privazioni e fatiche, quasi felice, pacificato. Un rapporto di conquiste parallele: comprare, spendere denaro, significava rappresentare una vittoria sociale e personale, un congiungimento dei desideri e delle possibilità, una testimonianza del funzionamento dell’ascensore sociale come termometro dello sforzo e delle capacità proprie. Un modo, scrive ampiamente nel libro, “di trionfo, o almeno di soddisfazione profonda, quelle prime volte che potevo procurarmi, con i soldi guadagnati da me, qualche piccolo lusso”. Una sensazione di libertà, un piacere per sentirsi uguali, trascendere la propria classe sociale di apparenza e mascherarsi da ciò che non si era. In poche parole: il denaro come potente e assoluto ingranaggio dell’idea costruita di onnipotenza.

Allora onnipotenti prima delle le crisi economiche, le Torri Gemelle, Berlusconi (“il compratore assoluto”), la Grecia e i debiti, la globalizzazione e la tecnologia selvaggia. Poi la mutazione: da piacere a dovere indesiderato, “pagare” è diventato un verbo sotto accusa. Un gesto che, per le nuove generazioni, ha perso la sua identità. Il saggio di Walter Siti, disseminato di spunti socio-economici pescati dalla carne viva della realtà, va al cuore del problema identificando nel mondo del lavoro liquefatto una delle principali caratteristiche di rottura. Il denaro ha perso la sua principale qualità di perno della mobilità e del riscatto sociale quando è venuta meno quella correlazione fra lavorare, essere pagati, pagare e comprare. Una condizione che, secondo l’autore, ha annullato per i giovani quella forza di miglioramento data dall’indipendenza del pagare.

“In mezzo, i giovani di una sempre più evanescente classe media, coccolati e spersi, incapaci di non cedere alle tentazioni di un’abbondanza fittizia; si rassegnano a lavorare gratis e a spigolare tra tutte le offerte della gratis economy, come veri e propri mendicanti digitali; temono di scottarsi i piedi nell’inferno che sta sotto di loro ma non hanno né scale né ali per aspirare al mondo di sopra”.

Così, con l’evaporazione del valore del lavoro e del denaro, cresce e avanza l’economia del gratis, servizi che prima eravamo abituati a pagare e ora sono accessibili gratuitamente: film, musica, libri, articoli scientifici, viaggi, etc. Un modo per compensare quel lavoro che non c’è, quella realizzazione economica sognata e realizzata a metà, quell’indipendenza desiderata e poi interrotta. Tutto in cambio di visibilità, accessibilità, sfruttamento silenzioso.  

Sottoproletari digitali che ricevono servizi gratuiti lavorando gratis: i nostri dati utilizzati in lungo e in largo la prima prova. Un mosaico sociale che Siti non nega essere “una schiavitù del free”, un vero “ossimoro che non lo è”: non ti pagano per il lavoro che fai, però ti concedono servizi gratis. Il denaro evaporato, quasi inutile. Un compromesso al limite che distrugge quell’idea di indipendenza economica garantita dal lavoro, creando una generazione che desidera il massimo e si  concede il minimo, che strappa piccoli lussi estetici con la consapevolezza che non dureranno, che crea vite fittizie per autorappresentarsi nell’inconscio del reale. Una generazione, “vittima di un paesaggio di rovine”, costretta a non comprendere il proprio prezzo perché non conosce il vero prezzo di nulla.

Felice Sblendorio

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