“Il dolore sopportato è molto più potente di quello che si sta sopportando”: il Colibrì di Sandro Veronesi

by Felice Sblendorio

“Se esistono parole per dirlo, è possibile”,scriveva Sandro Veronesi in “XY”. Nel suo ultimo libro, “Il colibrì”, un caso editoriale che ha confermato la potenza e le capacità profonde e conturbanti del romanzo, le parole rendono possibile il senso della tragedia, dell’umanità che si accartoccia e poi risplende, del dolore più totale – quello della perdita – che tocca tutti, colpisce tutti. Esplorando la consistenza di un dolore copioso e costante, il protagonista di questo romanzo, “il più ispirato scritto da uno dei nostri più ispirati scrittori” come ha suggerito Alessandro Piperno, è Marco Carrera, un oculista che gestisce una vita plasmata dalla sofferenza che, nonostante tutto, indica una visione luminosa tentando l’esercizio più difficile nelle tempeste: ordinare il dolore.

Il Colibrì” (La Nave di Teseo, 368 pagine, 20 euro) è un romanzo totale, dalla struttura complessa e dalla scrittura vivida e realistica che Veronesi padroneggia in maniera precisa nei vari sbalzi temporali, capace di distruggere e costruire una speranza in vista del futuro: ti incolla alla pagina, ti guarda dentro e ti salva. Spinto da un consenso di pubblico e di critica, con questo romanzo Veronesi rompe un tabù non scritto al Ninfeo di Villa Giulia: dopo aver vinto nel 2006 con il celebre “Caos Calmo” ritorna a concorrere al Premio Strega con il sostegno dell’Accademia degli Scrausi. bonculture ha intervistato Sandro Veronesi.

“Tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo”, scrive. Racconta la vita di Marco Carrera e parla di resilienza, un sostantivo abusato ma interessante. Carrera è un resiliente o un resistente?

Alla fine, è un resiliente, perché mantiene le proprie caratteristiche fino in fondo: non per tenacia o per ostinazione, ma per attitudine. Carrera rimane in piedi nei crateri che la vita produce. Nella sua, effettivamente, c’è una dose di male superiore a quella che tutti ci aspettiamo nelle vite normali, però anche nelle nostre ci sono dei crateri, dei momenti di dolore forte. Lui resiste e mantiene le sue caratteristiche: alle fine, è ciò che ci permette di superare il dolore restando umani. O si mantengono quelle caratteristiche, come fa il mio protagonista, oppure si perde. Se perdiamo, sopravvivendo, dissolviamo tutto quello che ci caratterizza.

Carrera sopravvive a lutti e dolori importanti, facendone memoria.

Il dolore è una carica energica fortissima: senza non andremmo da nessuna parte. Sono proprio dei picchi che producono l’energia vitale, e uno di questi picchi è il dolore. E il dolore è qualcosa a cui dobbiamo prepararci, dobbiamo essere sempre pronti, perché è una delle poche risposte certe che andiamo a dare a ciò che ci succede.

Lei ha capito a cosa serve il dolore, il lutto?

Abbiamo poche cose con le quali reagire: una è il dolore. Il dolore produce energia, libido. Anche se il dolore per la perdita varia in Europa, le tradizioni secolari ci dicono che il lutto viene rispettato solo se dura molto a lungo. Le persone che sono a lutto devono rimanerci per molto tempo: questo è un po’ un mistero. Perché significa reprimere l’energia vitale che si scatena dopo una perdita. La reprimiamo impedendoci di rimediare a quella mancanza, sfogandoci altrove, trovando altre ragioni di vita. In un certo senso, pur non volendo infrangere questa regola del lutto, Carrera rompe la ritualità mantenendo abbastanza alta – senza soffrire nemmeno una stilla di dolore in meno – la reattività umana a quello che succede. Questo fa di lui una persona affidabile.

A differenza di “XY”, in questo romanzo una luce del futuro, per dirla con Pasolini, c’è. Lei parla dell’uomo del futuro, che è una donna, una bambina. È tutta lì la speranza?

In XY il male porta all’accettazione del male, che non è mai una cosa da poco. Qui, invece, c’è una conseguenza ulteriore perché Carrera, a differenza della comunità di XY che quasi impazzisce, non rischia mai una malattia mentale. Lui accetta tutto, con delle conseguenze che non nega mai. La sua natura lo porta a vedere quello che c’è dopo: è il suo destino.

Non tutti ci riescono.

Questo è il punto: non avere nemmeno la voglia di sapere quello che c’è dopo, toglie prospettiva alle persone colpite. Siccome tutti noi veniamo colpiti prima o poi, questa perdita di prospettiva è grave. In generale, poi, se facessimo la somma storica, questo tema diventa la perdita di prospettiva del genere umano, quell’incapacità di scovare il futuro che ci appartiene da almeno tre decenni. Soprattutto in questi momenti storici parlerei di negazione di prospettiva, perché la nostra civiltà non ne sta producendo nessuna, ripiegata com’è su sé stessa. Quella di Carrera, invece, è una luminosa utopia, è il pensiero di un nonno molto provato nei confronti della sua nipotina: per lui è la speranza del mondo nuovo. Lei è una creatura un po’ diversa, superiore a quelle che l’hanno preceduta, come è normale che sia. Sono uomini del futuro che vengono al mondo e hanno un’attitudine, oltre che delle qualità, diverse da quelle che abbiamo noi. È uno slancio non bloccato, inevitabilmente nato dalle rovine di un mondo vecchio. È un po’ l’immagine di “Mamma Marcia” di Malaparte: un neonato messo al mondo da una donna morta.

Una delle qualità del romanzo è la struttura: abolisce la cronologia, andando avanti e indietro nel tempo. Perché ha sentito questa necessità, e come ha ricostruito l’ordine nuovo?

Per diluire il dolore, affinché non si concentrasse in quei determinati punti. Perché anche se racconto la storia di uno che ce la fa, non è detto che il lettore ce la faccia come lui ad andare avanti. Ho pensato che potesse far bene al romanzo cercare di scardinare la tirannia del tempo cronologico. Qualsiasi tirannia che viene scardinata per me è lodevole. Detto ciò: se togliamo il tiranno, chi mettiamo al suo posto? Mi sono detto: e se scrivessi solamente quello che mi va di scrivere? Visto che devo scrivere molte cose dolorose, ho scritto quando mi andava, quando mi sono sentito pronto. Ho scritto cose più dolorose prima, poi un capitolo dolce o gioioso, e se il tempo che li divideva era di venti o dieci anni pazienza: questo è stato già un criterio. Per me importante, perché mi ha dato piacere.

Anche la natura è interessante: non un libro specializzato sul dolore o sulla morte, ma un libro totale sull’indicibilità della vita. Una condanna o una volontà quella di esplorare il buio dell’anima?

Basta fare un passo in quella direzione e ti trovi lì: non cambia molto se ne fai uno o venti, perché sei sempre nel buio. La nostra luce, il razionalismo, è flebile, illumina giusto quello che abbiamo davanti, ci fa vedere ciò su cui altrimenti andremmo a intruppare. Conta come ti rapporti a questo buio, con quanta naturalezza ti trovi a viverci, accettarlo. Noi non parliamo con gli spiriti, con i morti che ci dicono quello che verrà: quelle sono luci molto più potenti che vanno avanti nel buio. La nostra società, cartesiana o aristotelica, ha un lumicino debole. Queste differenze non ce le possiamo permettere. Sono tutte figure che forzano l’alone del nostro razionalismo, una forma di vita ma anche una gabbia.

Apre e chiude il libro una frase: “Preghiamo per lui, e per tutte le navi in mare”. Cosa significa e perché ha sentito la necessità di farla comparire due volte?

È un’istruzione che ho sentito dire a mio padre, che non era prudente ma era un uomo di mare. Nonostante non la dicesse sempre, è una cosa che mi colpì, quindi la ricordo ancora. È una preghiera comune: se uno prega in mare, prega per tutti. L’ho messa per due volte nel libro per dar conto dell’esperienza, immediatamente precedente alla pubblicazione di questo libro, del mio attivismo per le Ong e contro l’indisponibilità ad aiutare le persone in mezzo al mare che un manipolo di squallidi aveva imposto all’Italia. Questa preghiera è molto più antica delle strategie elettorali di questi miserabili.

Carrera, Lattes, Manfrotto, Carradori, Chilleri, Molitor: è vero che ha un serbatoio di cognomi da utilizzare?

La scelta di un cognome, pur in modo figurato, dà il senso a una stirpe, a un destino. Carrera si è imposto da solo, galoppante com’è. Per gli altri ho un serbatoio che è costituito da cognomi normali che personaggi famosi hanno abbandonato, come al canile, per un cognome d’arte. Attingo a questo serbatoio di cognomi da vent’anni: hanno ancora voglia di vivere, di essere usati. Io la sento questa forza.

Le descrizioni più belle che fa sono della figlia e della nipote di Carrera. “Il colibrì” sembra sia il suo romanzo definitivo da padre. Quanto influenza la scrittura questa sua condizione?

Sono ventinove anni, da quando è nato il mio primo figlio, che io vivo con almeno un bambino per casa. È inevitabile che questo influenzi la scrittura come qualsiasi gesto, perché tu plasmi il tuo modo di essere al di fuori di te anche partendo da quello che hai attorno. È anche un allenamento, se vuole: bisogna pensare a una prospettiva, un modo e un mondo che li possa accogliere. Non è solo educazione, ma un pensiero di cura per un mondo che non mi vedrà: il primo ad accogliere il figlio nel futuro deve essere il padre, anche se al padre quel futuro sarà negato.  

Non è finita la lettera, è solo finito il foglio”, scrive Marco a Luisa. Credo sia la stessa cosa per un romanzo del genere. Cosa le dice ancora, nonostante sia finito il foglio, questa storia?

Non è finita la storia, ma la vita di Marco Carrera. Questo è un romanzo, intendo il genere senza nessun paragone letterario, come Martin Eden o Anna Karenina: sono romanzi che portano il nome dei loro protagonisti, perché raccontano l’arco della vita e s’interrompono con la loro morte. Se Marco Carrera non morisse, il mio romanzo durerebbe ancora. Non si tratta di una biografia, ma dell’arco di tempo definito in una vita. Io mi sono tuffato in quella di Carrera e ho scoperto un mondo, un universo a sé: a me resta questo.

La scrittura vince la morte?

Questo tema è risolto quando è nata la scrittura alfabetica nella Grecia antica. La scrittura nasce per le iscrizioni funebri: è uno strumento per superare la propria morte. Quando sarò morto la mia voce continuerà a risuonare grazie a chi legge per il tramite delle mie parole. Sopravviviamo grazie ai lettori perché la scrittura è un poderoso strumento di posterità.  Poi dipende da cosa e da come scrivi. Se scrivi Don Chisciotte allora sei immortale. Nel mio caso sarà un effetto collaterale. Io non ho cominciato a scrivere da giovane per superare la morte, ma ora che intravedo il tunnel alla fine della luce mi rasserena il fatto che rivivrò nella mente di qualche lettore. Sarà poca gente, come succede ai minori, ma comunque è una consolazione.

Il dolore, sfortunatamente, è una conoscenza familiare anche per chi scrive. La scrittura non corre mai il rischio di essere vittima del dolore?

Io non scrivo mai quando sto vivendo un dolore: quando soffro non scrivo. Il dolore è talmente totalizzante che qualunque cosa tu cercherai di fare verrà sciupata. Se uno evita di scrivere per lenire il dolore e di considerare terapeutica la scrittura – che non lo è mai, al massimo lo è la lettura – quando smette di soffrire ha una mente vergine in grado di trattarlo quel dolore. Il dolore sopportato è molto più potente di quello che si sta sopportando.

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