“Il magistrato che fece tremare il Duce” di Teresa Maria Rauzino: Mauro Del Giudice, il fulgido esempio di un intellettuale

by Lucia Lopriore

Fresco di stampa il nuovo libro curato da Teresa Maria Rauzino dal titolo: “Il magistrato che fece tremare il Duce. Mauro Del Giudice – Memoria e Cronistoria del processo Matteotti”, con prefazione, coordinamento grafico-editoriale di Silverio Silvestri e postfazione di Michele Eugenio Di Carlo (Ediz. Amazon Italia Logistica S.r.l., Torrazza Piemonte (TO), pp. 286, € 18,72).

In questo ultimo lavoro che ha richiesto anni di impegno, peraltro basato su fonti inedite, per la prima volta l’Autrice, attraverso il rinvenimento delle “Memorie” inedite del magistrato, ripercorre le fasi salienti della Sua vita professionale e personale.

Di grande rilievo è poi il periodo, molto sofferto e turbolento, trascorso durante l’istruttoria del processo per l’assassinio dell’onorevole Matteotti nel quale il principale responsabile fu il Regime Fascista.

Del Giudice, consapevole di questo, da uomo integerrimo cercò di far emergere una verità scomoda, una verità che doveva essere celata a tutti i costi. L’Autrice nell’ introduzione scrive:

«Questo manoscritto inedito, donato da Del Giudice al Comune di Rodi Garganico, lo abbiamo fortunosamente ritrovato nella locale biblioteca, dove sono collocati, in ordine sparso, i libri del magistrato, alcune sue opere pubblicate a stampa e le sue “carte inedite”. Un’ulteriore ricerca in varie biblioteche italiane ci ha permesso di recuperare in fotocopia i volumi mancanti. Soltanto così, già in un precedente nostro saggio, pubblicato da Giuseppe Cassieri nella collana “Gli ori del Gargano”, abbiamo potuto avviare una prima analisi del pensiero giuridico-letterario del magistrato rodiano. Nel Proemio delle Memorie inedite, datato Trani 26-XII-1928, Del Giudice sottolinea le motivazioni che lo hanno spinto a raccontarsi, ad affermare le sue verità. Giunto alla fine di una lunga, travagliata e spesso dolorosa carriera, reputando di aver assolto il compito da Dio assegnatogli in questo mondo, vuole mettere a profitto i pochi giorni che gli restano da vivere, “per buttare, così alla buona, sulla carta, le memorie della vita trascorsa. Scrivo per dire il vero sul mio conto e non già per odio di altrui o per disprezzo”, tende a precisare. Il magistrato rodiano è amaramente persuaso che il mondo volti le spalle agli uomini virtuosi, facendo loro scontare questo pregio, mentre celebra il successo raggiunto “per la via più rea” dagli uomini mediocri. Spetta ai posteri l’ardua sentenza: “La posterità è un giudice severo, ma giusto, imparziale e illuminato. La verità è insopprimibile, viene sempre alla luce”».

«Il mezzo migliore perché la verità risplenda – sottolinea Del Giudice – è raccontare i fatti salienti della propria vita, offrendo al pubblico un’ampia copia di dati e documenti, atti a frustrare le nefaste azioni dei detrattori e di chi ha interesse a nascondere la verità». Ma questo lavoro anche se riuscirà a terminarlo, difficilmente vedrà la luce negli anni della dittatura fascista, e comunque prima della sua morte: forse rimarrà per sempre inedito se, chi lo amò e gli sopravvivrà, non avrà cura di pubblicarlo, per rivendicare la sua memoria che, forse, il dente della calunnia cercherà di lacerare (ovvero offuscare del tutto)».

«Un compito – scrive la Rauzino – che ci accingiamo ad assolvere noi, dopo novantaquattro anni dall’inizio della stesura delle “Memorie” – perché la figura di Mauro Del Giudice merita di esse.re portata a conoscenza di tutti come fulgido esempio di onestà intellettuale. Le “Memorie”, attraverso la filigrana della sua vita, testimoniano esemplarmente la sua irruente forza morale. Del Giudice spera che la sua esperienza sia di aiuto agli uomini probi, onesti ed amanti del vero. Sarà un documento utile per far loro capire quanto sia dura la strada da percorrere …  specie per chi, come lui, ha avuto la disgrazia “di nascere sotto gravoso e pesante cielo, in terreno servo e soggetto e ferace di pungenti spine e d’inestricabili pruni e triboli”. Il magistrato cita letture, frasi di poeti e scrittori classici, passi danteschi, non per sfoggiare la sua erudizione, ma per validare le sue azioni. Il corpus di testi e autori spazia in diverse aree: filosofia, teologia, storia dei popoli, diritto civile, letteratura, mitologia, cronaca dell’età contemporanea, raccolte di studi storico-giuridici sul pensiero illuminista. Le recensioni ai suoi libri sono la prova della circolazione delle sue idee e del suo nome».

Dopo travagliate vicende di vita vissuta in diverse regioni d’Italia, verso il calare della tarda età, Mauro Del Giudice si ritirò a Vieste dove completò i Suoi scritti narrando gli avvenimenti della propria vita, specie quelli che lo avevano coinvolto nell’istruttoria dell’assassinio di Giacomo Matteotti.

A tale riguardo la narrazione si fa esplicita ed interessante. La Rauzino analizza con rigore scientifico le cronache dell’epoca ad iniziare da quelle locali. Ella, tra le tante, riporta alcuni brani del giornale “Il Foglietto” di Lucera e scrive:

Il «Foglietto», giornale della Daunia, il 22 giugno 1924, nell’articolo “La commossa indignazione della Capitanata per l’orrendo assassinio dell’on. Matteotti“, commenta così il delitto politico più eclatante del Ventennio, che farà vacillare seriamente il governo fascista:

«Un crimine truce e fosco senza precedenti nella storia politica del nostro paese – la barbara uccisione dell’onorevole Matteotti – ha intensamente commosso la nazione tutta. Anche perché dall’istruttoria vengono giorno per giorno fuori gravi e tremende responsabilità, dirette e indirette, di personaggi del partito dominante che occupavano posti eminenti nelle gerarchie del Partito e nella Politica. All’indignazione dell’Italia e del mondo civile si è associata la nostra Capitanata che con virile compostezza segue ora ansiosa le vicende delle indagini e gli eventi politici, nella fiduciosa speranza che l’opera della giustizia voglia rintracciare e colpire gli assassini e che – ristabilito sovrano l’imperio della legge per tutti – il sangue dell’onorevole Matteotti voglia fecondare l’auspicata normalizzazione che sola potrà assicurare alla nazione un periodo di tregua, di pace e di lavoro. La Nazione sovratutto».

L’editorialista del foglio lucerino informa i lettori che la grave e delicata istruttoria del processo è stata avocata dalla Sezione di accusa di Roma, presieduta da un magistrato di «altissimo valore morale e giuridico»: Mauro Del Giudice. L’insigne magistrato, autore di numerose, apprezzate pubblicazioni, è un comprovinciale, nativo della «forte» terra garganica, pubblicista del settimanale: «È titolo d’orgoglio di questo giornale essere stato onorato della collaborazione e della simpatia del commendator Del Giudice. Alla sua opera illuminata e alla sua coscienza adamantina son rivolti, in vigile e fiduciosa attesa, l’interesse e la dignità della Nazione. L’illustre figlio della Capitanata renderà ancora un gran servizio alla giustizia e alla civiltà».

Il 10 giugno 1924, quando per Roma si sparse la voce che una banda di criminali fascisti aveva rapito il deputato socialista Giacomo Matteotti, Mauro Del Giudice ebbe l’immediata premonizione che «una tegola stesse per cadere sulla sua povera testa». L’indagine, avviata dalla Procura generale, aveva dato scarsi risultati. Come era accaduto in precedenza per i delitti politici di eccezionale gravità, il procuratore Crisafulli presentò l’istanza per l’avocazione dell’istruttoria alla Sezione di accusa, della quale Del Giudice era presidente. Quella mattina, questi trovò il documento sul suo tavolo. Il suo amico Donato Faggella, primo presidente della Sezione di accusa, con aria apparentemente indifferente, gli domandò: «Che intendi fare?». Del Giudice non era abituato a tirarsi indietro. Non lo fece neppure quella volta. Sebbene avesse sessantotto anni, non delegò ad altri la responsabilità di un’istruttoria scottante che coinvolgeva il Direttivo del Partito nazionale fascista e il Capo del Governo. Faggella aveva ricevuto fortissime pressioni per esercitare tutta la sua influenza su Del Giudice, per indurlo a rinunciare all’incarico. Stimava troppo il magistrato rodiano per insistere, ma lo mise in guardia sull’alta posta in gioco, la credibilità della Giustizia: «Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma». Del Giudice era ancora più pessimista: di quell’istruttoria, molto probabilmente, non sarebbero rimaste neppure le carte, il Regime le avrebbe fatte sparire dopo aver operato il salvataggio degli assassini, dei loro complici e mandanti. Rassicurò Faggella: avrebbe reso onore alla Corte d’appello di Roma. Il suo nome sarebbe uscito illibato. Si augurava che anche i suoi colleghi facessero altrettanto.

Il 19 giugno 1924 iniziò l’istruttoria. Il procuratore Crisafulli, che riceveva direttive dal ministro Oviglio, gli affiancò il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi. Del Giudice temeva interferenze, ma i suoi dubbi sparirono quando vide che quest’ultimo era disponibile ad accertare le responsabilità degli esecutori materiali del delitto e anche degli alti mandanti, compreso Mussolini.

La sera stessa, Del Giudice e Tancredi si recarono al carcere di Regina Coeli. Interrogarono Amerigo Dumini, il quale, appena li vide, con spavalderia disse: «Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente (Mussolini) è informato di quanto loro stanno facendo?». Del Giudice lo fissò severamente. L’inquisito capì che, se avesse mancato di rispetto ai magistrati, per lui era pronta la cella di rigore; mise da parte i suoi modi arroganti, ma negò ogni responsabilità. Quando, due mesi dopo, la giacca di Matteotti fu trovata sotto un ponte della Flaminia, Del Giudice tornò a interrogarlo ponendogli sotto gli occhi l’indumento macchiato di sangue, ma anche questa volta Dumini non mostrò alcun cedimento.

La vicenda Matteotti suscitò un forte interesse pubblico e mediatico. Quando l’Agenzia Stefani annunciò che Del Giudice aveva emesso i mandati di cattura contro Cesare Rossi (direttore dell’ufficio stampa, eminenza grigia del Duce) e contro Giovanni Marinelli (segretario amministrativo del Partito fascista), si registrò immenso stupore e vivissima soddisfazione non solo a Roma, ma in tutta Italia. Si capì che l’autorità giudiziaria sarebbe andata fino in fondo.”

Furono tante le testimonianze raccolte sul caso, ma alla fine:

“Mussolini, tramite il segretario del Partito fascista Roberto Farinacci, avvocato di Amerigo Dumini, ottenne che il processo fosse trasferito a Chieti «per ragioni di ordine pubblico». Con sentenza del 24 marzo 1926, la Corte d’Assise teatina, addomesticata dal Regime fascista, mise fine alla vicenda processuale dell’assassinio Matteotti: assolse Malacria e Viola, e condannò a poco più di 5 anni di reclusione Dumini, Volpi e Poveromo. Non potendo smontare il corposo impianto accusatorio raccolto nei quarantaquattro fascicoli dell’istruttoria, si operò la separazione tra responsabilità del rapimento e responsabilità dell’omicidio, orientando così la sentenza verso il meno grave reato preterintenzionale.

Pene di fatto scontate per pochi mesi dai condannati, grazie al provvido decreto emanato il 31 luglio 1925 – quindi dopo il deposito dell’istruttoria e prima dell’inizio del processo – che dichiarava non punibile l’omicidio preterintenzionale e i reati ad esso connessi. La tragedia del delitto Matteotti finì in una farsa”.

Come poteva il processo avere un finale diverso? Il Regime doveva “Imperare” e i colpevoli, nonostante le prove schiaccianti, non potevano essere condannati con pene gravi. Così tutto fu messo a tacere e la questione si risolse senza che la giustizia trionfasse. 

A questo punto viene da chiedersi, rapportandoci ai giorni nostri, cosa sia cambiato da allora. La Rauzino nel testo pone in evidenza gli aspetti più reconditi di una vicenda che se fosse stata trattata in un periodo diverso forse avrebbe avuto altri risvolti. Ma forse anche no.

Questi ed altri sono gli avvenimenti che emergono dalle Memorie del personaggio oggetto dello studio. A tale riguardo a noi piace evidenziare che c’è differenza fra un libro di Storia ed un romanzo storico. Il romanzo storico utilizza personaggi realmente vissuti ma le storie sono frutto della pura fantasia dell’autore, così menzioniamo il famoso romanzo de: “I promessi Sposi”, dove suor Virginia de Leyva (nata Marianna) (Gertrude), Bernardino Visconti (l’Innominato), Gian Paolo Osio (Egidio), solo per citare alcuni personaggi, restano un punto fermo nel romanzo, ma le vicende sono frutto dell’immaginazione di Alessandro Manzoni che, su suggerimento dell’amico Walter Scott, ritiratosi nella villa di Brusuglio dopo i moti del marzo 1821,  decise di utilizzare i personaggi descritti dall’abate Giuseppe Ripamonti nella sua Historiae Patriaae, (Libri X,Milano 1641), creando quello che poi sarebbe diventato un capolavoro della letteratura italiana, studiato ancora oggi.

Diversamente, il libro di storia ripercorre fasi di ricerca documentale basate su fatti accaduti ma senza aggiunte.  Facendo parlare i documenti. Quello dell’Autrice riteniamo che appartenga di certo alla tipologia del libro di Storia. Un libro avvincente e coinvolgente, una preziosa testimonianza che si aggiunge alla doviziosa produzione dell’Autrice sulla Storia del Gargano e non solo. Una ricca Appendice con documenti ed immagini inedite, infine, completa ed impreziosisce il volume.

A Teresa Maria Rauzino va il nostro augurio di un meritato successo.

Lucia Lopriore

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