Il mestiere del lettore di Piero Dorfles: «Conoscere la letteratura, in questo mondo così caotico, è uno strumento per sopravvivere»

by Felice Sblendorio

«Per me la felicità è in gran parte legata ai libri. I libri letti, i libri da rileggere, i libri che rileggo, i libri che scopro». Scrive così Leonardo Sciascia in “Fuoco all’anima”, da poco pubblicato per i tipi di Adelphi. Anche per Piero Dorfles, giornalista, critico letterario e divulgatore culturale, i libri rappresentano una felicità. Sono, senza esagerare, la sua vita: personale prima, professionale poi. In un libro piacevole e arguto, “Il mestiere del lettore” (Bompiani, 252 pagine, 16 euro), Dorfles ritorna a parlare di libri e propone una rassegna di temi e titoli utili per scrivere una vibrante dichiarazione di amore nei confronti della letteratura e del valore umano e sociale della lettura. Una pratica, un’abitudine, un lavoro appunto, capace per l’autore di ordinare e di spiegare in profondità i temi cruciali della nostra esperienza umana.

bonculture, in occasione della sua partecipazione ai Dialoghi di Trani, ha intervistato Piero Dorfles.

Dorfles, partirei dal sottotitolo: leggere ti cambia la vita.

Chi legge possiede qualcosa che gli altri non hanno. La lettura la paragono al nuoto: chi sa nuotare ha la possibilità di affrontare il mare, mentre chi non sa leggere è come se non sapesse affrontare l’oceano della letteratura. Dentro quel mare, che vive in Occidente da almeno tremila anni, c’è la storia dell’uomo, la vita di quello che siamo stati, il senso ultimo del nostro essere. Chi non legge, quel senso ultimo non lo tocca. E questo non vuol dire che non sappia niente, ma quello che la letteratura dà, che è l’anima profonda dell’uomo, gli sfuggirà per sempre.

Lei previene un’obiezione quasi spontanea: parla di cambiamento, non di miglioramento della vita o dell’uomo. C’è una differenza.

Hitler aveva una biblioteca personale di trentamila volumi, ma non mi sembra che si sia smarcato dalla sua esistenza bestiale. Avere libri o leggerli solamente, quindi, non cambia la vita. Diciamo che ti cambia la vita avere un forte senso critico, curiosità, capacità di immedesimazione. Se questo è quello che succede quando si legge, allora avviene un cambiamento. Leggere è una cosa che ci permette di confrontarci con ciò che è diverso da noi senza pregiudizi, entrando nella testa di gente che è lontana per cultura, intelligenza, modi di vivere. È un’attività che ti permette aperture infinite sul mondo.

Quando sono entrati nella sua vita i libri?

Quando mia madre ha cominciato a leggermi da piccolissimo, ad alta voce prima che andassi a dormire, alcune storie. Ricordo “Pinocchio”. E poi ricordo il ciclo “I pirati della Malesia” di Salgari: i primi libri sui quali mi sono abituato a leggere con maggiore passione, da solo.

Un grande italianista come Ezio Raimondi ha parlato spesso della voce dei libri. Quale?

Non so se ci sia una sola voce. Sento, quando leggo, che c’è qualcosa che ha un senso profondo delle cose e, in mezzo a queste cose, anche di noi esseri umani. Ogni libro conserva qualcosa e ha dentro di sé una profondità, un abisso: basta capirlo.

Per lei la lettura è diventata una professione. Resta, però, un’abilità, un’abitudine. Chi è, in Italia, il cattivo lettore?

Io non parlo di cattivi lettori, ma dei non lettori. Non esistono cattivi lettori, i lettori sono tutti buoni: il problema è che non sanno leggere. I cattivi lettori dicono che non hanno tempo per leggere, che i libri costano troppo, che non sanno dove reperirli. Tutte scuse! I libri si possono trovare anche nelle biblioteche, nelle bancarelle, dal giornalaio. Poi, si può leggere negli interstizi della giornata, anche semplicemente in autobus o dal dentista. È un problema di abitudine. Se non si è abituati a leggere, questa capacità di leggere ovunque non si consolida. In Italia abbiamo un 85% di non lettori. Persone che, semplicemente, non sanno leggere.

Leggere, secondo molti, è un gesto coraggioso: si sceglie come, quando e dove leggere un libro.

Non sono d’accordo. Leggere è un’abitudine, non c’è nulla di coraggioso nel leggere in posti in cui la gente non legge. Il coraggio del lettore mi sembra quello di essere tale e basta. Il coraggio di chi non legge, invece, comporta il tagliarsi via una parte importante della propria vita, un’esperienza fondamentale dell’essere umano. Ovvero quella di trasformare la parola scritta in pensiero e il pensiero in lettura, dunque in avventura della mente.

Chi legge, però, non richiede di essere intrattenuto. Lei ha ideato e condotto programmi televisivi di intrattenimento sui libri: qual è il segreto per una divulgazione letteraria curiosa?

Se ci fosse un metodo si potrebbe fare un manuale anche per le scuole, ma sfortunatamente non c’è. Per riuscire a comunicare entusiasmo per i libri bisogna avercelo. Credo che la sfida, ad esempio, sia uno strumento per avvicinare alla letteratura. Ogni sfida produce una competenza maggiore. Nello studio di “Per un pugno di libri” la sfida produceva una lettura maggiore fra i ragazzi. Le sfide collettive producono un’infezione culturale. Nel momento in cui si legge insieme, lo faranno di più. Non ci sarà mai una popolazione del 100% che legge, però se riuscissimo a passare dal 10 al 20 sarebbe un gran successo.

Spesso ha detto che le trasmissioni devono essere fatte con cultura, non di cultura.

Quando noi parliamo, la grande maggioranza dei concetti che usiamo viene da cose vissute, di solito già codificate dalla letteratura. Quando si fa un programma di libri, o qualunque altro programma, bisognerebbe tenere a mente le nostre origini, la nostra letteratura: la nostra vita, dunque. La presenza di libri, con i loro riferimenti e racconti, dovrebbe guidare la costruzione del nostro linguaggio divulgativo.

In questo suo lavoro parla di libri attraverso alcuni temi ricorrenti nella letteratura. Come ha scelto questi temi?

Sono temi del tutto personali, assolutamente soggettivi. Sulla base della mia esperienza ho selezionato qualche tema. Dico, ad esempio, che le zie nella letteratura sono una specie di grimaldello per capire di più che cos’è la famiglia: quando compare una zia in un libro, infatti, è come se si accendesse una luce, un fatto, come se s’illuminasse qualcosa che era nell’oscurità. Quando parlo di isole lo faccio perché le isole sono una specie di strumento tecnico – in letteratura – per approfondire, in un sistema chiuso, le relazioni fra gli uomini. Ci sono tanti temi e ci ho messo per ciascun tema dieci libri che mi sembrano esemplificare meglio queste mie visioni e categorie.

Il primo tema è quello dell’inettitudine. Fra gli inetti c’è Don Chisciotte. Come mai?

L’anacronismo è una parte molto importante dell’inettitudine. Gli inetti sono semplicemente indietro nel tempo, attaccanti a modi antiquati di confrontarsi con la vita: non si sono resi conto che le cose sono cambiate, continuando a vivere con generosità un mondo diverso. Don Chisciotte vive da cavaliere errante in un tempo in cui la gente si spara con lo schioppo. Vive un mondo che prevedeva lo scontro diretto, il coraggio personale, la fatica dell’uomo; mentre tutto è diventato tecnica, ovvero fucili e cannoni. È anche un sognatore, e tutti i sognatori sono fuori dal tempo, dunque inetti, perché credono di poter applicare le categorie di chi sogna alla realtà.

Inserisce in questa rassegna anche il genere del giallo. Genere nobile, secondo lei.

Se si legge Sciascia ci si accorge che ha scritto soprattutto gialli. E se c’è qualcosa che mi convince del concetto di giallo, è che illumina qualcosa di fronte a un delitto, qualcosa che irrompe rispetto a uno schema abituale delle nostre cose. Si apre un’indagine e quell’indagine è qualcosa su di noi che ci fa studiare, pensare. Poi tutti i libri possono essere d’intrattenimento, e il giallo spesso lo è, ma il concetto dell’indagine è interessante. L’indagine apre la possibilità di guardare le spinte più profonde delle emozioni umane che, altrimenti, sfuggirebbero. E serve proprio il delitto per aprire questo schema. Ce lo ricordano anche due grandi romanzi come “Delitto e Castigo” e “Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana”.

Esiste un degno erede di questa tradizione?

Ce ne sono tanti. Ci sono i migliori e i peggiori, i grandi letterati e i mestieranti. Anche Camilleri, che ho molto amato e mi era amico, era fondamentalmente un artigiano della letteratura più che un grande scrittore. Ma santo cielo: quante cose ci ha dato! Ci ha lasciato tanto: emozioni, cose distanti, una visione peculiare di quello che è l’organo di polizia. Anche i grandi artigiani, dunque, possono aprire spiragli sulla vita.

Critica anche libri famosi come “Il piccolo principe” o “La storia” di Elsa Morante. Cosa c’è che non va in questi libri che lei cataloga come “mielestrazio”?

Sono libri che hanno avuto molto successo, hanno trasmesso emozioni, ma mancano di ironia e di dubbio. Libri monotematici, con una rappresentazione manichea delle cose: bene o bene, male o male. Sento puzza di bruciato. Anche il libro della Morante è stato un grande successo, ma il mondo che racconta è un po’ fasullo, con uno schematismo d’ingenuità dei protagonisti che rende tutto insensato. La letteratura ha il diritto di essere fantasiosa, di inventare mondi inesistenti. In questo caso, però, il tentativo era quello di scrivere qualcosa di neorealistico, qualcosa di vicino alla realtà. Un tentativo, secondo il mio modesto punto di vista, semplicemente fallito.

I libri sono una sfida al tempo: resistono, hanno la pretesa di sopravvivere, di essere per sempre.

Io credo che nulla sia per sempre, il mondo consuma facilmente tutto, però quando si continua a citare Omero o Shakespeare, Manzoni o Dostoevskij, ci ritroviamo fra le mani qualcosa di molto importante. Sono convinto che ci siano dei libri per certi versi immortali. Non tutti abbiamo gli stessi classici, ma dire che non esista un classico universale è un errore. Chi può negare che alla base della cultura occidentale ci siano i grandi miti greci? Il teatro e la poesia sono nati da quella cultura. Ignorarli significa ignorare com’è fatto l’uomo.

La pratica della lettura, invece, sopravverrà al tempo, alle distrazioni della modernità?

Resisterà sicuramente. Il rischio è che resista in una fascia di lettori elitari, che hanno un rapporto duraturo con la lettura e che in Italia coincide con una fascia molto stretta della popolazione. Speriamo che non sia così. Conoscere la letteratura, in questo mondo così caotico, è uno strumento per sopravvivere.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.