Il mondo di Banana Yoshimoto, delicato e colorato di personaggi ed emozioni

by Claudio Botta

Ciotole di riso, pubblicato come sempre da Feltrinelli, è l’ultimo lavoro di Banana Yoshimoto. Il secondo capitolo del viaggio dei suoi personaggi Mimi e Kodachi iniziato con Le strane storie di Fukiage, ultimi arrivati nella sterminata galleria partorita dalla sua fantasia ed esperienza alla ricerca del senso profondo della famiglia, dell’amore, dell’amicizia, della vita e della morte, le tematiche da sempre sono al centro della sua narrativa, con la loro complessità e le loro infinite sfumature. Tra romanzi, saggi, raccolte di racconti, la figlia di Takaaki Yoshimoto, uno dei più importanti poeti e critici letterari giapponesi degli anni Sessanta, impegnato e di sinistra, e sorella della celebre fumettista Haruno Yoiko, non si è mai fermata, dopo il folgorante esordio con Kitchen nel 1987, ad appena 23 anni, studentessa al college delle arti dell’Università Nihon di Tokyo e cameriera part time in un golf club, fervida lettrice di manga fin dall’infanzia e di Stephen King, lo pseudonimo Banana preferito al nome Mahoko per l’internazionalità della pronuncia, “carino” e “volutamente androgino”.

Con il costo dei voli ancora proibitivo ed internet agli albori, il Giappone era ancora lontanissimo e inaccessibile, con la sua cultura, le sue tradizioni, i suoi costumi custoditi nei villaggi rurali, e la capitale caotica e regno di solitudini amplificate da dolori ignorati: l’irruzione di Mikage Sakurai, una ragazza che perde l’ultima persona che ha al mondo e alla quale è legatissima, la nonna, e si rifugia nel cuore della sua casa e della sua vita solitaria, la cucina, prima di un lento percorso di rinascita, conquista, sorprende e spiazza il suo paese (sessanta ristampe in un arco temporale brevissimo) e dopo qualche anno anche l’Occidente, a partire dall’Italia, il primo paese al mondo in cui verrà tradotta – nel 1991 da Giorgio Amitrano, prima laureato e poi docente all’Istituto universitario Orientale di Napoli -. La contemporaneità viene raccontata in modo diretto e aperto, il viaggio nella vita attraverso le sue varie fasi offre sempre profonde riflessioni e disarmanti confessioni, le storie sono specchi per guardarsi davvero, per riflettersi, perdersi e ritrovarsi, le distanze improvvisamente si annullano, una generazione si racconta e mette a nudo, confessa le proprie insicurezze, i propri sogni, i desideri, le proprie relazioni senza steccati e senza tabu. La famiglia tradizionale perde la sua sacralità e si apre ad altre esperienze, gli affetti sono intensi e pienamente vissuti, gli amori sono complessi e maturi, anche l’omosessualità viene presentata nella sua disarmante normalità, la sensibilità è il filtro onnipresente e la chiave di lettura di un successo che anno dopo anno si rinnova e si allarga, alimentando un culto laico per la scrittrice, snobbata dalla critica e dal gotha accademico (come il suo connazionale Haruki Murakami, in attesa del Nobel per la letteratura da almeno un ventennio), ma adorata dalle sue lettrici e dai suoi lettori. La morte è presente in maniera anche ossessiva, una presenza che aleggia costante nel mondo dei vivi e induce e spinge ad apprezzare ogni attimo di ogni giornata, a scoprire e custodire ogni piccolo gesto, ogni sguardo, ogni aspetto, ogni paesaggio, ogni scorcio, ogni particolare, ogni dettaglio, ogni sorriso che rende speciale una persona e un’esistenza. «Ciascuno di noi è solo con sé stesso. Quando moriremo, il nostro mondo finirà con noi. Ma saremo sempre presenti in mezzo a quelli che ci hanno conosciuti. Saremo parte di loro, frammenti che ci somigliano» scrive in Su un letto di fiori (pubblicato da Feltrinelli nel 2021), dopo aver vissuto la perdita dell’adorato padre: l’elaborazione del lutto diventa così dolce e piena di luce, di speranza, di amore, la perdita è un’esperienza totalizzante ma non definitiva, che non spezza legami profondi. Anche le tragedie collettive, come quella di Fukushima (il secondo disastro nucleare nella Storia dopo quello di Chernobyl), vengono rielaborate con una delicatezza toccante: e ispirano Il dolce domani, la storia d’amore tra Sayoko e Yoichi, fisicamente spezzata da un terribile incidente in cui lei rimane gravemente ferita e lui muore, ma non muore il loro rapporto, non muore la speranza, non muore la fiducia nel futuro e nei giorni che verranno.

Nella scrittura e nella percezione di Banana Yoshimoto, la felicità è un insieme di piccoli dettagli, di scelte coraggiose, di sfide da affrontare, di rotture che determinano cambiamenti. Di luoghi che riflettono sensazioni e stati d’animo. Gli ambienti domestici, le camere d’albergo, le strade, i fiori che segnano l’alternarsi ciclico delle stagioni. Le città, i quartieri. Moshi, moshi (Pronto, pronto? Se tradotto in italiano) è una dichiarazione d’amore per Shimokitazawa, la zona a sudovest di Tokyo dove lei ha vissuto a lungo, risparmiata dalle devastazioni prodotte dalla seconda guerra mondiale e che ha mantenuto così intatta la sua natura popolare, le costruzioni basse, le stradine strette, lo spirito bohémien: non un semplice sfondo quindi, ma elemento centrale dell’ennesimo romanzo di rinascita, di Yoshie prima e sua madre poi, devastate dal suicidio del padre (e marito), che per ritrovarsi lasciano la casa di famiglia nell’elegante e centrale quartiere di Meguro per una realtà sconosciuta e distante solo in apparenza. Una metafora del rapporto tra i luoghi e le persone, su quanto siano determinanti nel costruire relazioni e personalità. E sull’importanza dei tempi, accelerati e dilatati, disordinati e composti: «Sembrava che il quartiere ci stesse insegnando l’importanza di non avere fretta. Mentre ovunque, nel resto del Giappone, ci si sentiva dire solamente: “Sbrigati!”Lì almeno potevo prendermela calma, potevo disperarmi, intristirmi, lasciarmi andare. Gli esseri umani hanno tutti i loro punti deboli, difetti difficili da superare. E allora va bene così. In fondo, siamo tutti diversi». Riflessioni evocate anche nel saggio Un viaggio chiamato vita (pubblicato nel 2010 in Italia), dove il suo universo viene raccontato in prima persona, e i legami, i ricordi, le atmosfere, i profumi, i colori della narratrice mantengono la stessa intensità della scrittrice. Perché «ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l’anima respira e grazie alla quale vive».

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