«Il movimento aveva una parte attiva, conflittuale, propositiva». Vent’anni dal G8 di Genova, Valerio Callieri e il ricordo della tortura di Bolzaneto

by Felice Sblendorio

Nel 2001, nella Genova polveriera di Giorgio Caproni, Valerio Callieri aveva vent’anni. Vent’anni, in questi mesi, sono passati dai fatti del G8. Vent’anni: un numero che si ripete, oltre gli anniversari, le date-simbolo, gli avvenimenti. Vent’anni di dubbi e domande che lo scrittore romano, vincitore del Premio “Italio Calvino” e autore del romanzo “Le furie”, restituisce con impegno e dolore in un saggio che, per la quantità di temi affrontati, supera idealmente Genova, collocandosi al di là della cronaca, delle testimonianze storiche, dei ricordi.

Nella brevità di “È così che ci appartiene il mondo” (Feltrinelli, 112 pagine, 12 euro), Callieri racconta la sua esperienza nella caserma di Bolzaneto, animando una riflessione generale sulla paura, la tortura, l’oppressione che diventa potere consolidato, il piacere che produce la violenza. Non si adagia su opinioni sfibrate, ma invita alla riflessione: a guardare ciò che è stato e si è interrotto, valorizzando anche quello che, a distanza di anni, si può ancora comprendere di una generazione politica che non ha dimenticato il suo orizzonte visionario. bonculture ha intervistato Valerio Callieri.

A distanza di vent’anni dal G8 di Genova racconta per la prima volta la sua detenzione nella caserma di Bolzaneto. Come ha sconfitto quella paura che le ha impedito, per tanto tempo, di raccontare questa storia?

Credo che si sia trattato di un processo di elaborazione, soprattutto inconscio. Mentre scrivevo questo testo mi sono reso conto che tante scelte che avevo fatto nella vita – dalla pratica delle arti marziali alla lettura di saggi di sociologia e psicologia del trauma, dalla psicoanalisi allo studio dei movimenti sociali – erano state dei tentativi di controllare ciò che era successo laggiù, nella cella di Bolzaneto.

Nel 2001 aveva vent’anni. Perché aveva deciso di essere lì, di essere a Genova?

C’erano diversi motivi politici che ancora oggi – mentre la Siberia e il Canada bruciano e l’Europa viene colpita dalle alluvioni, mentre i diritti del lavoro diventano quasi delle chimere dell’epoca dei boomer – sono assolutamente validi. Probabilmente la manifestazione di Genova non avrebbe “risolto” nulla, diciamo così, ma era un appuntamento per rimettere quelle questioni al centro del dibattito. E fino ai giorni della manifestazione le tematiche erano ampiamente dibattute, dopo si è parlato solo di violenza, estintori e vetrine.

Scrive: «C’è un mistero che è rimasto nella notte di Bolzaneto». Qual è la parte che resta oscura, che non è riuscito ancora a comprendere di quel trauma?

Come si possa infierire su una persona immobile. E come si possa ridere mentre si infierisce.

Che cosa non potrà mai dimenticare chi, come lei, ha visto Genova?

Che l’essere umano si rivela in situazioni di emergenza. Capiamo chi siamo quando siamo posti di fronte a scelte che non possiamo fare nel salotto di casa. Ad esempio: soccorrere una persona in difficoltà e rischiare il pestaggio o tutelarsi?

Racconta le violenze e le torture delle forze dell’ordine, ma qual era l’obiettivo politico di quella repressione organizzata del dissenso?

È una domanda a cui dovrebbero rispondere i gestori dell’ordine pubblico. Io posso solo ipotizzare. Va detto però che il movimento è durato diversi anni, prima di perdersi ha portato milioni di persone in piazza – se pensiamo alla famosa manifestazione contro la guerra del 2003. Se l’obiettivo fosse stato quello di allontanare le persone della politica, forse è riuscito solo in parte e forse sono stati altri mutamenti che hanno avuto un ruolo maggiore. Per esempio, lo spostamento d’immaginario causato dall’undici settembre e qualche ingenuità politica del movimento stesso.

La memoria dei fatti di Genova in questi anni ha quasi oscurato le idee di quei movimenti. Oggi qual è l’eredità di quell’accelerazione, di quella militanza collettiva?

Oggi ci sono i Fridays For Future, NiUnaMenos, i picchetti operai della logistica, il Black Lives Matter, tra quelli che mi vengono in mente. Ognuno deriva in qualche maniera dal movimento di Seattle del 1999. Se non altro per la capacità intersezionale, di lottare quindi su più dimensioni dello sfruttamento, da quello economico a quello di genere, per esempio.

Scrive: «Spero che la storia di Genova e del movimento di Seattle sarà anche un’opportunità per fare autocritica. Non sarà solamente la violenza delle Erinni, la repressione, la tortura, ma metterà in luce le lotte, le responsabilità e gli errori». Quali sono stati gli errori e i limiti della sua generazione?

Non posso rispondere individualmente. Ci sarebbe bisogno di un processo di elaborazione collettiva. Io credo sia solo sbagliato tramandare un’immagine senza contraddizioni del movimento dei movimenti. Che sia errato considerarci innocenti e vittime di cattivi poliziotti quando invece il movimento aveva una parte attiva, conflittuale, propositiva. Percepirsi nel ruolo di vittime vuol dire mettersi fuori dall’orizzonte della Storia. Nel libro faccio l’esempio di Rosa Parks che non era semplicemente una signora afroamericana dalle gambe stanche ma un’attivista dei diritti civili che scegli di sedersi sui sedili del bus riservati ai bianchi e disobbedisce consapevolmente a una legge dello stato.

Ritornerebbe ancora in quella Genova polveriera del 2001?

Con il senno di poi la risposta è fin troppo ovvia. Spudoratamente ovvia. Talmente ovvia che la tengo per me.

Il titolo di questo libro rimanda a Pasolini. Il mondo ci appartiene nell’incertezza di una risposta, nell’oscurità di un proprio abisso?

Nella fine de” La ballata delle madri” Pasolini descrive con poche pennellate il nucleo profondo di molti esseri umani. In contrapposizione apparente, ma accomunati – “fatti fratelli” – dal rifiuto profondo a essere diversi, “a rispondere del selvaggio dolore di esser uomini”. Credo che dobbiamo passare di qui per toccare alcune parti di cui proviamo vergogna, o paura.

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