Il Paese delle tovaglie a quadretti: i conti con l’oste di Melilli. “La tradizione non esiste, c’è solo la ricerca”

by Felice Sblendorio

Con un guizzo arguto Paolo Poli teorizzò lo scenario senza mezze misure: “Pensavo fosse il secolo del sesso, invece questo è il secolo della cucina”. L’eclettico teatrante, che più volte ha letto lo scrittore e gastronomo Pellegrino Artusi, con la sua ironia sintetizzò una lunga e importante attenzione a un rituale sociale oramai imprescindibile nelle nostre vite: la cucina.

Non si sa se in bene o in male, alla luce di quello che scriveva Aldo Buzzi ne “L’uovo alla kok” (“Nei periodi di decadenza il culto della cucina diventa eccessivo”), negli ultimi anni il discorso mediatico attorno alla cucina si è trasformato in una narrazione brillante, quasi “appiccicosa”, capace di donare senso evocativo a chef stellati, show e talent. Ma cosa c’è sotto la patina luminescente che ha istituzionalizzato quest’arte che si presuppone spontanea? Prima che la pandemia eliminasse dalla nostra lista di riti laici una cena al ristorante, a questa domanda – in un tentativo riuscito di narrativa che regge la prova senza l’etichetta tematica “gastronomica” – ha risposto Tommaso Melilli, scrittore e cuoco, da poco firma del Venerdì di Repubblica con la rubrica “Pentole e parole” e autore de “I conti con l’oste. Ritorno al Paese delle tovaglie a quadretti” (Einaudi, 184 pagine, euro 17,50): uno strano esperimento di narrativa del reale che sprigiona curiosità e voglia di farsi racconto tanto da contaminarsi con il reportage dei luoghi, dei volti e dei sapori e con il memoir di una vita, quella dell’autore, fra pagine e pentole. In un gran tour delle osterie italiane alla ricerca delle storie di chi cucina e produce, trasforma e mangia, Melilli racconta da scrittore, prima che da chef, cosa significhi cucinare in queste osterie, quale mitologica figura sia quella dell’oste e cosa sia diventato mangiare in questi luoghi oramai considerati come gli ultimi residui di un mondo sociale genuino. Seguendo ancora le orme di Buzzi che diffidava degli scrittori che non parlano mai di mangiare nei loro romanzi, Melilli eccede, e dopo anni a Parigi fra gli studi di letteratura e le cucine è ritornato in Italia per viaggiare, scoprire e raccontare le osterie meno illuminate, quelle lontane delle stelle, che cercano di interpretare la tradizione facendosi ogni giorno novità, scoperta. Una scoperta vissuta in questo libro come una seconda epifania o, meglio, come il moto originario di qualcosa di più esteso che sta nascendo, e che l’autore ha raccontato grazie al trasporto di una relazione, di una voce, di un contatto umano. bonculture ha intervistato Tommaso Melilli.

I conti con l’oste” è un viaggio sentimentale scritto prima del Covid19. Mangiare fuori, da sempre, è un rituale carico di significati sociali: non è una pratica che si limita alla consumazione di un pasto fuori casa. Il mondo della ristorazione nei prossimi mesi cambierà, con un futuro immediato ancora difficile da prevedere soprattutto per la cucina regionale, quella più vicina ai territori. Oggi, però, che cosa ci manca di questi luoghi?

La verità è che stavamo già diventando più soli anche prima del Covid-19. Vivevamo sempre meno nelle strade e nei cortili: per i nostri nonni e bisnonni la vita era fuori, non dentro. I ristoranti sono destinati a diventare il luogo in cui riproduciamo come un rituale una vita collettiva che non abbiamo più. In questi giorni ci mancano il fastidio e l’eccitazione del contatto reale con degli sconosciuti.

Il suo percorso, che va da Parigi all’Italia e dalla scrittura alla cucina, fa i conti con il Paese delle tovaglie a quadretti. Che Italia ha scoperto attraverso le osterie?

Un Paese che è molto cambiato negli ultimi dieci anni. Un’aria di pessimismo che circola un po’ ovunque, e tanto lavoro e piccole realtà virtuose che si raccontano poco. Ho raccontato in questo libro otto storie, ma ce ne sarebbero centinaia.

Cosa rappresentano le osterie, micromondo di cucina antica, legami e tempo lungo, in questa frenesia di gusti e tendenze?

Non credo che la cucina “antica” sia necessariamente migliore delle altre. Viviamo nel nostro tempo, e fingere di vivere in un’altra epoca sarebbe malsano. Le osterie e le trattorie rappresentano un modello di luogo condiviso, dove si sta bene e dove stanno bene tutti. E in una società sempre più divisa mi pare fondamentale e importante riconoscere quel modo di ospitare le persone come un valore.

Il binomio tradizione e territorio in questi anni è stato abusato, o forse mai vissuto in modo autentico. La tradizione in cucina che cos’è?

La tradizione non esiste, c’è solo la ricerca. Si può cercare nel passato, verso il futuro, o nel presente. La ricerca del passato, però, è fondamentale, per il semplice fatto che il nostro palato si forma prima di tutto con i ricordi dell’infanzia.

Scrive che l’Italia non è un Paese di cuochi e che la nostra cucina è “antropologicamente inadatta a essere fatta al ristorante”. Si cucina mediamente bene a casa?

Ci piace raccontarci che sia così, ma la realtà è purtroppo molto diversa, per due motivi opposti: da una parte per l’evoluzione anche nel nostro Paese di consumi alimentari più industriali, senza che ce ne rendiamo conto. Dall’altra sì, mangiamo ancora molto spesso cibo cucinato a casa, ma anche in quel caso facciamo troppo spesso i conti senza l’oste, perché a cucinare sono soprattutto le donne. Ora, va benissimo il mito della cucina, della mamma e della nonna, ma forse la mamma e la nonna avrebbero voglia di fare dell’altro!

Le cucine come luoghi fisici sono spazi complessi e sfaccettati che vivono dinamiche creative, organizzative, gerarchiche. Come si abita la geografia di una cucina? 

Pensando sempre ai nostri rispettivi corpi, e al fatto che comunichiamo moltissimo con la nostra presenza fisica. In cucina si tocca, ci si urta, ci si sfiora, ci si scansa. Il punto non è cercare di non toccarsi, che è impossibile: si deve trovare un modo di non imporre la propria presenza come un ostacolo, riuscendo a danzare gli uni intorno agli altri nella consapevolezza che lo spazio è limitato, e bisogna viverlo assieme. Chi lavora in una cucina lo sa da sempre e ora, col distanziamento sociale, dovremo impararlo tutti.

Nell’ultimo decennio il cibo è stato al centro di un racconto molto spettacolare basato su show, tutorial, celebrities. L’autenticità, i personaggi e le voci che raccoglie, però, sembrano raccontare la cucina come “un’arte analfabeta”, priva di parole e quindi di rappresentazione. Quanto resta di vero e ignoto nel farla?

Per due secoli la cucina professionale è stata trasmessa principalmente per emulazione, senza un vero e proprio linguaggio. La cucina è molto simile all’arte dei teatranti, che imparano l’uno dall’altro. Oggi, il mercato di chi cucina è completamente “liberalizzato”, e va bene così. Ma una delle sfide è cercare di dare una forma narrativa a quella trasmissione spontanea del sovoir faire antico, che diversamente finiremmo per perdere.

È interessante il discorso che fa sulle pretese intellettuali di molti chef che, da anni, lavorano per una costante definizione estetica dell’alta cucina. Cosa danneggia questa pretesa “colta”?

Non credo danneggi nulla, onestamente. Ogni tentativo di dare un senso ulteriore a qualcosa è sacrosanto. A volte, però, il modo in cui si cerca di fare cultura col cibo è maldestro, ma è nell’ordine delle cose. Se cento persone sentono il bisogno di dire la stessa cosa è naturale che, in molti, la diranno male. Se siamo fortunati, alcuni – pochi – la diranno bene, e sono convinto che le parole giuste vincano sempre. Quando le trovi, diventano virtuosamente “contagiose”, se posso permettermi.

Tre ultime curiosità. La sua rivoluzione parla anche dalle tovagliette: perché toglierle?

Perché bisogna lavarle. E, di solito, chi le lava non è un uomo. Se decidiamo di fare il bucato tutti insieme, allora vanno bene anche le tovaglie e le tovagliette.

Si mangia prima o dopo il servizio?

Dopo, perché chi cucina deve avere fame.

Dilemma ostico, infine. Prezzemolo: sì o no?

Sempre.  

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