“Il passato ci rincorre e ci soffoca”: le cose che bruciano di Michele Serra

by Felice Sblendorio

Nella seconda di copertina di ogni suo libro, alla voce biografia, c’è un’ammissione: “ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere”.

La carriera di Michele Serra è tutta lì, in quella descrizione che condensa passioni ed esperienza, la necessità e il talento di una vita. Ha scritto, scritto, scritto: senza soste, per tutta la vita, senza farsi troppe domande, come ha raccontato nel libretto rosso “La sinistra e altre parole strane”, postilla al “laterizio bianco”, pubblicato da Feltrinelli nel 2017 e contenente una selezione delle sue “Amache”, spazio corsivo (ristretto), su Repubblica, dove Serra ha stabilito, nell’arco di più di un quarto di secolo, un suo record: avere un’opinione al giorno.

Ogni singolo giorno le parole di Serra sono state e sono lì, pronte per ordinare e rinominare i tempi inquieti del nostro presente. Poi, lontano dalla frenesia del tempo e della ritualità, i romanzi: doni di scrittura e stile, esercizio di liberazione dai limiti del reale. Limiti che elude a pieno ne “Le cose che bruciano” (Feltrinelli, 171 pagine, € 15,00), il suo ultimo libro che racconta della fuga dalla città e dalla politica di un ex onorevole. In una vecchia poesia pubblicata su “Cuore”, Serra scriveva che l’unica cosa veramente volgare è non dire niente. Fortunatamente, soprattutto in questo ultimo romanzo, l’autore non si concede questo lusso. Non spreca l’occasione e parla di noi, del passato che ci rincorre, dell’essenza delle cose.

Bonculture ha intervistato Michele Serra in occasione dell’uscita del suo libro.

Il protagonista de “Le cose che bruciano” è in fuga, principalmente, dal suo precedente mondo, quello della politica. Quale forza spinge Attilio Campi ad abbandonare la scena? 

Soprattutto il bisogno di stare da solo. Se la solitudine è un lusso, e nella società di massa lo è sicuramente, mi sono inventato un eroe che ha la capacità di concedersela. Beato lui.

I fallimenti portano a confrontarsi con la propria esistenza. L’Io sembra essere il vero nemico da affrontare in questa storia: è una volontà che rientra nel perimetro del possibile per il protagonista?

Lui ci prova, ma effettivamente finché si tratta di liberarsi degli altri, della politica, dei social, della società, tutto gli riesce abbastanza semplice. Più difficile è liberarsi di se stessi, del proprio passato, delle proprie ferite, e soprattutto, nel caso di Attilio, della propria ossessione di avere ragione. Il sogno di Attilio è di “diventare umile”, ma il suo carattere è litigioso, persino arrogante. L’arrogante che cerca di cerca di diventare umile è una condizione che genera, tra l’altro, anche momenti di comicità, di impaccio, di inadeguatezza: dunque di comicità. Spero che chi legge questo mio libro ogni tanto rida o sorrida.

Attilio progetta e realizza roghi per distruggere, anche sbagliando, alcune cose importanti del suo passato. Michele Mari nella sua ultima raccolta di poesie, “Dalla Cripta”, scrive “che il passato è tutto, e siamo suoi”. È un possesso che coinvolge anche Attilio? 

Il passato lo rincorre e lo soffoca. Non solo psicologicamente, anche materialmente: si sente assediato dalle cataste di mobili, quadri, carte, fotografie, memorie che ha accumulato nella vita. Cerca di liberarsene con la goffa aggressività del piromane. Non si deve svelare il finale del libro, ma è lecito dire che fa un passo falso; e forse proprio grazie all’errore recupera consolazione, senso del limite, affetto per se stesso.

Si riesce davvero ad essere liberi, ritrovando la leggerezza in una modalità quasi zen, senza una memoria personale? 

Ovviamente no, la memoria non è un peso del quale possiamo liberarci. Possiamo cercare di scegliere, questo sì, cosa tenere e cosa buttare; cosa ci serve, cosa ci opprime. Non esiste una modalità uguale per tutti: quella di Attilio è brusca e aggressiva, direi poco giudiziosa. Ma abbastanza spettacolare dal punto di vista della trama…

La rovina di Campi è stata la sua prima (e ultima) proposta di legge dedicata all’introduzione dell’uniforme obbligatoria nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. Una riforma che, per tutta la durata del romanzo, ossessiona il lettore sulla bontà di quella proposta. Ci aiuti lei a sciogliere questo dubbio: è una proposta conservatrice o progressista? 

Bisognerebbe chiederlo ad Attilio… Sicuramente risponderebbe che è una risposta rivoluzionaria, troppo intelligente per un mondo ottuso e spaventato. Lui è fatto così. Io ho qualche dubbio in più. E credo non solo io. L’uguaglianza, mi pare, sia di sinistra. Ma sulle vie per ottenerla, mi pare ci sia molta discussione.

Per Attilio la politica è stato il suo palcoscenico. “Che qualcuno ci provi a fare politica, è commovente. Nessun sarcasmo: commovente è la parola giusta”, afferma.Condivide questo pensiero rassegnato? Riesce solo ad affermare un chi e non più un cosa, oggi, la politica? 

Si parla poco di idee, molto di leaders. Come se l’Io fosse la sola chiave del mondo. E questo rende la politica molto simile alla società che la esprime, malata di narcisismo. Le caterve di selfie dei politici sono lo specchio dei loro elettori. Ma l’esposizione allo sguardo pubblico ha comunque qualcosa di eroico, di sacrificale. È come se il leader si immolasse, si desse in pasto al popolo. E in questo, sì, c’è qualcosa di commovente, e Attilio, che è un disertore e ha scelto di mettersi in salvo, pensa a chi è rimasto in trincea al posto suo con una certa riconoscenza.

Abbandonando l’arena pubblica il protagonista sembra allontanarsi da una visione del mondo al maschile. È così: la presenza salvifica delle protagoniste femminili è un riflesso di questa evoluzione?

Questo è forse il punto centrale del libro. Attilio è il tipico maschio alfa che non ne può più dell’ossessione di primeggiare. E non c’è dubbio che le donne, a cominciare dalla moglie che lo mantiene, quasi lo adottino, lo prendano in consegna, lo aiutino a trovare un varco. Credo che farsi mantenere dalla moglie sia, per un maschio come Attilio, che ha grande opinione di sé, un passo davvero rivoluzionario.

Il suo romanzo è una celebrazione della materia, che governa anche lo spirito secondo Attilio. È questo l’elemento che lega il protagonista a Michele Serra? È la voglia di concretezza naturale, che utilizza acqua e fuoco, a unirvi? 

Il rapporto con la natura è sempre stato, nella mia vita, indubbiamente molto forte. E da qualche anno lo è anche di più. Molto del personaggio, delle sue esperienze, del suo amore per la materia e per il lavoro materiale, fa parte della mia esperienza personale. È un dono che gli ho fatto volentieri.

La letteratura è un fingimento continuo. A lei, che scrive ogni giorno di una materia così dura come la realtà, quando arriva l’esigenza di entrare in questo gioco liberatorio che confonde le cose e libera le ossessioni? 

La letteratura, per un giornalista, è anche un risarcimento. Non devi rispondere ad alcun riscontro di realtà, puoi inventare, immaginare, mentire, imbrogliare. Scrivendo narrativa puoi essere giovane, vecchio, donna, uomo, perché la finzione abbatte ogni vincolo. Posso solo dire che è una sensazione magnifica, ma anche molto faticosa. Devi inventarti tutto, immaginare tutto, i mattoni non te li fornisce più la cronaca.

È un modo per lasciarsi andare, senza dover giustificare nulla al lettore?

Sì, è proprio questo. E la mia sensazione, da “Gli Sdraiati” in poi, è che il lettore sia pienamente complice di questa libertà. Qualche critico, qualche giornalista, cerca di ricacciarmi sempre nella mia dimensione di “giornalista di sinistra”. Sono i lettori che mi permettono, invece, di essere solamente uno scrittore, e l’enorme vantaggio del successo è che non c’è più bisogno di intermediazioni. Questo mi evita, ed è un grande privilegio, di rammaricarmi per la modestia impressionante di molto giornalismo culturale. Non mi serve più: faccio da solo.

Attilio quando arriva a Roccapane, il luogo scelto per il suo ritiro, abbandona la società e i social, diventando refrattario alla virtualità. Lei non è sui social: quale elemento si raffina o si coltiva, nello sguardo sulle cose, lontano dal virtuale? 

Potrei rispondere: l’elemento del reale. Ma mi rendo conto che è una risposta imperfetta, perché la virtualità e i social sono oramai parte integrante della realtà. Dunque la risposta più giusta, forse, è questa: si raffina e si coltiva il piacere del limite. Dello spazio piccolo, della comunicazione ridotta, della solitudine. Dell’intimità inviolata. E dell’io silenzioso, che è quello più incline a capire e accettare la vita.

L’odio, la voglia di farsi dimenticare, la smania di avere ragione, la rabbia: sono i sentimenti che serpeggiano nel libro e nella realtà. È una società che cova rancore quella in cui viviamo?

Eccome se lo è. È una società-truffa, che promette a tutti celebrità, fama, dominio, soldi, sapendo benissimo che non è possibile. E dunque genera una dose mostruosa di frustrazione, impotenza, rancore. L’uomo che taglia la legna con un paio di amici, come fa Attilio e come faccio spesso anche io, riesce a sentirsi felice e completo anche se nessuno al mondo è al corrente di quello che sta facendo.

In più occasioni, tratteggiando fatti sociali nelle sue Amache, lei ha ripetuto che la rabbia, la benzina del mondo, prima era assorbita dentro più culture di riferimento, quasi incanalata. Oggi è liquame in libertà? 

Per il momento sì, è liquame in libertà. In genere sono le guerre a fare di quel liquame benzina, a bruciare il mondo per poi ripartire da capo. Dobbiamo sperare che non vada a finire così, e fare di tutto per evitarlo. La sola via che conosco è cercare di essere gentili, amichevoli e utili agli altri. Per questo non sono sui social: perché so già che non riuscirei ad essere gentile, amichevole e utile agli altri. Come scrittore e giornalista, invece, posso fare un pochino meglio. Spero.

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