Il passato non ha nulla da perdere: gli Scorrettissimi di Costanza Rizzacasa d’Orsogna e la cancel culture nella cultura americana

by Vito Alberto Lippolis

Sebbene sia sempre vivo l’appello di Arbasino perché gli intellettuali italiani si facciano la proverbiale gita a Chiasso, c’è anche da dire che oggi, in un mondo in cui i confini sono sempre più ampi e sempre più labili, è ora per gli intellettuali di farsi, come dire, un po’ più di una gita, a Chiasso.

Una persona che gli Stati Uniti, la Chiasso preferita dagli intellettuali europei, li conosce bene è Costanza Rizzacasa d’Orsogna, giornalista e scrittrice che da anni si occupa di cultura americana per la Lettura del Corriere della Sera, oggi in libreria con “Scorrettissimi: la cancel culture nella cultura americana” (Laterza, pp. 208, €18,00).

Il suo libro fotografa un’America spaccata a metà, le cui due fazioni sono accomunate solo dal pregiudizio l’una nei confronti dell’altra.

La sinistra ha quella che la destra definisce cancel culture, ma la destra è bravissima a praticare una censura tutta sua: l’abbiamo visto, per esempio, nell’ultima campagna elettorale l’anno scorso in Virginia, dove il repubblicano in corsa, Glenn Youngkin, ha strumentalizzato moltissimo la questione delle letture nelle scuole, chiedendo di mettere al bando i libri sul razzismo. Le questioni culturali vanno al cuore delle persone e, quando il dibattito politico verte più su quello che sei che su quello che fai, è molto più difficile un compromesso: dalle guerre culturali, come ormai si è appurato anche a livello accademico, è facile arrivare alle guerre civili. Un tempo l’America era animata da uno spirito pragmatico che oggi sembra essere stato dimenticato: per esempio, se all’epoca di George W. Bush si parlava di scuola, si parlava di problemi pratici come le classi pollaio, oggi invece si parla di scuola solo per parlare di libri da bandire e identità da riaffermare o negare.

Eppure, come fa notare nel libro, la cancel culture viene da lontano

Il libro di Campbell e Manning sulle microaggressioni (“The Rise of Victimhood Culture: Microaggressions, Safe Spaces, and the New Culture Wars”, 2018) e quello di Lukianoff e Haidt sulla libertà di espressione nei campus (“The Coddling of the American Mind: How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting Up a Generation for Failure”, 2019) hanno messo in evidenza come sia cambiato proprio il modello parentale. Mentre i genitori-ombrello intervenivano, aprendo l’ombrello per deviare gli ostacoli, quando questi ostacoli si presentavano sulla testa dei figli, oggi invece i genitori-tosaerba, proprio come facciamo quanto tagliamo l’erba del prato e falciamo le erbacce prima ancora che possano crescere, agiscono preventivamente e vanno in cerca degli ostacoli per neutralizzarli e non farli arrivare mai ai propri figli. Il risultato è che i ragazzi crescono in un contesto ultraprotetto e arrivano nei campus senza la minima idea di cosa sia una difficoltà. Anche nelle scuole si sta perdendo quello che fino a poco tempo fa era un pilastro dell’istruzione americana, ovvero il debate. Con la metodologia del debate si insegnava sin da bambini a confrontarsi: ti veniva affidata un’opinione anche opposta alla tua perché tu la argomentassi, e, imparando a pensarti dalla parte opposta, acquisissi una conoscenza più profonda non solo delle idee degli altri, ma anche delle tue. Oggi tutto questo si è perso perché il punto non è più sviscerare le cose, vederne lati negativi e positivi, analizzandole da più lati. Il punto sembra essere diventato solo neutralizzare l’altro, non più imparare dall’altro.

Abbiamo smesso di imparare dagli altri anche quando gli altri in questione sono i grandi autori del passato, pretendendo di cancellarli o dimenticarli, eppure, come scrive, “il passato non ha nulla da perdere, noi sì”.

Ed è vero. Durante un’intervista, David Simon (sceneggiatore dell’adattamento HBO de “Il complotto contro l’America” di Roth) mi disse che rivangare il passato ci serve soltanto se può darci chiarezza sul presente, se può aiutarci ad illuminare il presente. Noi ci stiamo perdendo nel passato e ci stiamo dimenticando del presente: invece di pensare a migliorare il futuro, ci stiamo dedicando a tentare di cambiare un passato che non può cambiare, che è passato, è la storia, è così.

Se abbandonassimo un po’ l’assolutismo degli ultimi tempi, vedremmo che tutti possono sbagliare, che la storia è piena di sbagli e soprattutto che nessuno può né dovrebbe essere messo su un piedistallo.

Per poi evitare ogni strumentalizzazione: è chiaro che i diritti devono andare avanti, ma qui stiamo parlando di un’altra cosa, di un tentativo di cancellazione della cultura. Noi non possiamo imputare a libri di duecento anni fa di avere la sensibilità nostra – che poi per altro magari tra cento anni qualcuno lo farà con noi ed è assolutamente assurdo: fra duecento anni noi avremo, chissà, sei o diciotto generi, e ci considereranno retrogradi perché nel 2020 ne consideravamo soltanto tre. Nel frattempo, dalla cancellazione di autori come Twain, noi abbiamo solo da perderci.

Se questo è il modo con cui ci rivolgiamo ai libri del passato, cosa sta diventando scrivere un libro, oggi?

Adesso c’è la corsa a chi cancella prima, i manoscritti degli autori restano nei cassetti e impazza la figura del sensitivity reader, di cui ho parlato a lungo anche nel libro. I libri vengono scritti con il bilancino, si mettono energie spropositate nel tentativo di non offendere nessuno: perfetto, però così la letteratura va a farsi benedire. Io ho visto delle avvisaglie di questo anche con il mio romanzo [“Non superare le dosi consigliate”, Guanda, pp. 256, €18,00. Ndr.], perché la mia protagonista era antipatica – era abbastanza, vistosamente, molto antipatica – e questo a tanti non è andato giù. Spesso mi sono sentita rivolgere la domanda “ma perché è cattivo?”: ma, scusa, perché ora un personaggio non può essere cattivo? Stando a questa logica, tantissimi dei libri che abbiamo amato e che ci hanno insegnato a scrivere oggi non avrebbero più valore perché abitati da personaggi negativi. Tutto ciò è tra il risibile e lo sconcertante.

C’è anche un po’ l’aspettativa oggi che, per parafrasare Fran Lebowitz, i libri siano specchi e non porte.

Questo è vero. Ma è una cosa che secondo me un po’ migliora con l’età.

Ci si annoia a rileggere sempre sé stessi?

Più che altro col tempo si smette di rapportare tutto alla propria esperienza. Da bambino rapporti tutto alla tua esperienza e l’unica cosa che vuoi è riascoltare la stessa storia ogni sera, ma poi cresci e col tempo inizi a voler leggere anche cose che non sono la tua esperienza. I libri sono serviti a questo per tantissimo tempo, cioè a portarci a fare delle esperienze nuove e diverse, ad andare in mondi dove non saremmo mai potuti andare.

Dobbiamo arrenderci all’idea di un futuro fatto solo di libri edificanti e personaggi moralmente inappuntabili?

Ben vengano tanti libri che ci rendano consapevoli sugli errori del passato, ben vengano tanti libri sul femminismo, sull’identità di genere, ma la letteratura è un’altra cosa. Io lì non ci vedo una via di mezzo. Non lo so se la letteratura sia sopra ogni cosa e se le debbano essere date tutte le attenuanti possibili – probabilmente non porrei neppure in questi termini la questione – però è chiaro che la creatività deve essere creatività fino in fondo.

Tutti questi personaggi buonisti, perfettini, tutti senza colpe, tutti virtuosi: a cosa servono? Dove finisce la letteratura così? La letteratura è sempre stata piena di mostri e proprio i mostri sono stati i personaggi che ci hanno fatto imparare di più. È ed è stato sempre così.

Il punto è che stiamo parlando di letteratura, stiamo parlando di invenzione, quindi un personaggio può veramente essere efferatissimo, cattivissimo e poi farla franca. Non deve esserci necessariamente la punizione del colpevole, non nella letteratura.

È successo anche a lei, come diceva: nelle prime trenta pagine di “Non superare le dosi consigliate” Matilde, l’insopportabile protagonista e voce narrante, domanda al lettore “E se vi stessi mentendo anche adesso?”, eppure in molti – molti che non erano più bambini da molto tempo – hanno voluto leggerci solo una confessione memorialistica.

Certo, tutto ha un fondo di verità: io posso aver avuto delle esperienze che poi ho romanzato, ma il romanzo non finisce certo lì. Un autore deve avere questa libertà, non gli si può chiedere conto anche della vita dei suoi personaggi. Se scrivere un personaggio antisemita potesse essere preso come una prova di antisemitismo, allora non avrebbe proprio più senso scrivere. A queste condizioni viene a mancare proprio il fine stesso della letteratura.

Matilde quindi la riscriverebbe come l’ha scritta?

No, la farei anche più antipatica. Non me ne frega niente, anzi le dirò: per il prossimo romanzo ho già un personaggio un po’ fastidioso e sono molto contenta di averlo.

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