Il profilo dell’altra di Irene Graziosi: «Le cose che arrivano dai social non dovrebbero riguardarci»

by Felice Sblendorio

Limitare a un unico tema un libro, o una storia, è sempre riduttivo. Alcune volte, però, è indispensabile. È il caso del romanzo “Il profilo dell’altra” (Edizioni E/O, 233 pagine, 16.50 euro), l’esordio di Irene Graziosi, autrice e fondatrice assieme a Sofia Viscardi del canale “Venti”. Raccontando le vite di Maia e Gloria – una ventiseienne acida e smarrita la prima e un’influencer trasognata la seconda – Graziosi traccia una radiografia precisa e spietata di tutto quello che sono i social network e dei meccanismi trasformativi che producono nella realtà. Un romanzo raro, mai compiaciuto, che è una bussola per questi tempi incerti e uno specchio deformante per le nostre illusorie proiezioni. bonculture ha intervistato Irene Graziosi.

Il profilo dell’altra” è un romanzo che racconta l’età contemporanea con un tono diverso dallo spirito del tempo.

Oggi ci sono tanti spiriti: chi ha un giudizio critico sui social e sulle dinamiche che favoriscono e chi, superficialmente, crede che grazie ai social ci sia una circolazione reale delle idee. Sicuramente è un romanzo critico rispetto a questo mondo, ma forse è anche troppo poco critico: i miei personaggi sono giovani, dunque ingenui. Io, come essere umano, credo che questa realtà sia molto più inquietante.

Maia, la protagonista, è aspra, ha un dolore che la scava dentro, la trasforma, ma mai in una vittima.

Ho cercato il più possibile di non trasformarla in una vittima, perché la vittima si porta con sé un ruolo passivo, compiacente agli occhi dei lettori. Volevo che Maia fosse respingente. Io, se la voce è consapevole, dunque onesta, sono appassionata di voci ruvide. Maia, per parlare del mondo che vedeva, doveva essere un personaggio particolarmente acido, pieno di asprezze, poco virtuoso.

Quanto è stato difficile raccontare un fenomeno nel momento in cui tutti lo vivono?

La parte più difficile, personalmente, è stata quella di allontanarmi da questo mondo. Quando ho cominciato a scrivere il libro trascorrevo molto tempo sui social, ma tutte le stesure le trovavo molto disoneste: il tono era disonesto. Poi ho abbandonato quasi tutte le piattaforme. Sentivo la necessità di far germogliare e crescere dentro di me questa prima persona così forte. Avevo bisogno di diventare Maia.

Una distanza fisica, dunque, non temporale.

Forse non era necessario avere una distanza temporale: il nucleo di questo sistema è molto evidente, oramai. La rete, nata nel secolo scorso, si è sgretolata quando le piattaforme sono diventate private, quando hanno cominciato a parlarsi fra di loro, quando noi stessi – tutti i giorni – non facciamo altro che lavorare gratuitamente per delle aziende che frammentano la nostra attenzione e vendono il nostro profilo di consumatore. Questo è un fatto certo: è proprio così. Solo in Italia c’è ancora un dibattito, mentre in altri Paesi europei si parla già di altri temi: dal diritto all’oblio alla privacy. Io, ad esempio, non riesco a cancellarmi fisicamente da Instagram: è una cosa inquietante.

Le idee, come le persone, cambiano: quanto è cambiato il suo sguardo su questi temi?

Tantissimo. Quando ho cominciato a scrivere per Vice coltivavo l’ingenuità di far cambiare idea a qualcuno. Credevo di fare qualcosa di buono e mi interessava davvero, con una morale un po’ farlocca, fare qualcosa di buono. Quando è nato “Venti” mi dicevo: le persone grazie a noi si sentiranno meno sole. Poi ho capito che no, non è così: ma in maniera profonda, radicale. I contenuti dei social, come i libri, non cambiano la vita di persone che non sono pronte a farsela cambiare. Quello è un compito della scuola che fin dal principio, quando sei malleabile, può lavorare sul tuo tempo di scoperta e di curiosità. Internet non cambia nessuno. Vorrei sapere se c’è un fascista che ha cambiato idea dopo aver letto una card su Instagram. La risposta è no. Le cose che arrivano dai social non dovrebbero riguardarci.

Non è così semplice applicarlo nella vita di tutti i giorni.

Lo so, ma non ci devono condizionare. Il malinteso dei social, ben descritto da Guia Soncini, è pensare che sia pazzo solo chi ti dice che sei una merda e non chi ti dice che sei un genio. Autori, scrittori e intellettuali hanno dimenticato che non bisogna fare una cosa perché c’è un pubblico da compiacere: tu fai quella cosa lì, o sostieni quell’idea, per una tua condizione personale che deve essere indipendente dall’influenza del pubblico.

Lei scrive che sui social sono tutti buoni e che ognuno ha una sua causa. In epigrafe cita Grossmann: «Non credo, io, nel bene. Io credo nella bontà». La bontà, come sosteneva Walter Siti in un suo libro, appartiene all’intimità del singolo, mentre il bene ufficiale può diventare autoritario?

La bontà è individuale, mentre l’idea di fare qualcosa in nome di un bene supremo è assurda. Trovo molto interessante quando in nome del bene vengono fatte o dette cose in cui, esplicitamente, non ci si crede. Più una persona si racconta di essere buona e meno lo è. Tutte le persone di sinistra sono tanto buone? No. Tutte le donne femministe pure? No. La bontà e la cattiveria sono contestuali, tutti hanno avuto o hanno il proprio periodo del cattivo. Anche in politica succede questo. C’è un pensiero che vuole la sinistra buona e la sinistra, inseguendo queste cose buone e retoriche, alla fine si è persa. Che cosa volete dire, chi siete? La sinistra, oggi, è senza identità. La destra, rappresentata da una Meloni che non riuscirebbe a governare nemmeno per dieci minuti, dice delle cose in cui qualcuno si può riconoscere: è concreta, è coerente. Non vuole compiacere nessuno. E non vuole piacere a tutti, ma solamente al suo elettorato.

Siamo schiavi della reputazione?

Sì, come se tutti dovessero essere sempre la reginetta del ballo. E perché? Non è mica il tuo lavoro. Se sei Miss Italia è giusto volere la pace nel mondo, sennò che desiderio è? Mi sembra una cosa così ingenua, fuorviante.

La coerenza si trasforma sempre più spesso in estremismo?

La coerenza da due lire diventa estremismo. Sui social si è personaggi e i personaggi, da sempre, sono bidimensionali: il pubblico si aspetta qualcosa da te. Una sola cosa, ma per sempre. Se cambi idee, cresci o fai altro perderai tantissimo: interazioni, pubblico, soldi.

Fabrizio De André, in Smisurata Preghiera, cantava: «La maggioranza sta/come una malattia/come una sfortuna/come un’anestesia/come un’abitudine». Quante idee inflazionate, oramai per abitudine, facciamo nostre?

Tantissime. Io adoro, anche se adesso non ce ne sono più di bravi, i giornalisti e gli scrittori di destra. Mi sembra che non siano schiavi della morale di nessuno. Cosa me ne importa se verbalizzi anche tu l’indignazione per la morte di Cloe Bianco? Dimmi un’altra cosa, fammi svegliare il cervello. L’abitudine rischia di appiattire tutti. Bisognerebbe, in realtà, cominciare a costruire una cultura in cui ci si chiede individualmente, e poi collettivamente, che cosa vuol dire per noi comportarci in un certo modo e non ferire il prossimo nei limiti di quanto ci è concesso. Quello che rimane vero sono solamente i valori che possediamo.

I valori, oggi, sono spendibili?

Sono più spendibili gli “ismi”. Non tanto i valori, ma i movimenti: l’ambientalismo, il femminismo. Parole vuote, oramai. Vorrei scrivere una lista personale di tutte le parole sfibrate che ci ostiniamo a ripetere. Quando una persona mi dice sono femminista o sono uno scrittore io non so che cosa voglia dire. Femminista per me significava una cosa, ma io non riconosco le femministe di oggi, che sono femministe però per la maggior parte della gente. Quella parola, secondo me, non esprime più un’autenticità di fondo. La mia sensibilità, forse, non è allineata ai binari della nuova epoca.

Sono le parole o la struttura sociale a determinare e cambiare il mondo?

È sempre la struttura a determinare la realtà. Poi si può creare una grande confusione e si possono risemantizzare molte parole, ma quello è un processo normale perché cambiamo e noi siamo cambiati. La parola scrittore per me è interessante. Io non mi sento una scrittrice, e non è un problema di reputazione, ma per me scrittore vuol dire anche non essere comunicativi oltre i tuoi libri. Letteratura e narrativa sono cose diverse, ma oggi tutti si proclamano scrittori. Questa è una parola risemantizzata perché la struttura è cambiata. Come le case editrici: Einaudi non è più l’Einaudi che decideva di non pubblicare Primo Levi.

Crede che questa perdita di sostanza e azione delle parole impoverisca e banalizzi anche lo sguardo di chi, realmente, dovrebbe farsi carico di cambiare le cose?

Alcune parole sono diventate slogan. Quando sento la parola inclusione penso a Adidas, oppure a Nike: «diversity, equity, inclusion». Chi ci lavora realmente su questi temi? Pochi. Penso a Silvia Semenzin che ha promosso una legge contro la diffusione di materiale intimo non consensuale. L’ha fatto in modo semplice, concreto e non ha rotto le palle sui social. Quindi c’è un modo per smettere di ripetere parole o slogan e fare le cose? Sì. Me lo ricorda sempre anche l’impegno di Aboubakar Soumahoro. Abbiamo i nuovi schiavi in Puglia, ma non interessano a nessuno.

Perché le tematiche di classe sono così poco cool?

Perché ci sono le mode e perché, forse, siamo molto individualisti. Facciamo molta fatica a vedere le cose nella propria interezza e ci sono poche cose che ci uniscono. Oggi è tutto frammentato e non abbiamo la possibilità di conoscere persone diverse da noi. Ho conosciuto in Emilia una giovane operaia. Ha 21 anni, un contratto di lavoro, delle ferie: ho pensato che avesse una situazione migliore di molti freelance che vivono a Milano.

Scrive che i social sono la tomba delle rivoluzioni.

Sì, esattamente. Quel pezzo mi era venuto in mente leggendo lo sfogo di una ragazza grassa che si lamentava di un insulto. Ho pensato: ma gliel’hai detto? Hai affrontato chi ti ha insultata? Se crediamo di affrontare chi ci insulta su Instagram sbagliamo: qualunque nostra rimostranza rimane lì, non cambia niente, muore.

Un altro tema del libro è l’identità. Che è sempre contraddittoria, mai rigida o monolitica.

Parto da un paradosso: l’identità fluida spesso ha bisogno di specificazioni. Ma se l’anno in cui non ti innamori di nessuno sei un a-romantico che fluido sei? Ho presentato un libro di una scrittrice americana bona, che vive con una lesbica, ma vuole scoparsi un uomo. Ma è queer, quindi – teoricamente – non può scoparsi un uomo. Ho pensato: ma sono mille passi indietro? Cosa te ne importa? Tutto quello che fai così diventa identitario, conflittuale. Non più semplice o istintivo, ma complicato.

Come se lo spiega?

C’è una fragilità, una solitudine e un’insicurezza che sono identitarie. In un momento in cui ci si è atomizzati si sente il bisogno di darsi dei confini molto rigidi. Da giovani si è molto più coerenti, granitici: ti dici io non sono questo, sono altro. Ma è un segno di difesa, di fragilità reale. Da grandi dovremmo accettare la verità e la libertà di non sapere mai, fino in fondo, chi siamo e che cosa vogliamo.

Esistiamo davvero quando nessuno ci guarda?

Sì, dipende dalla persona che sei. Le mie protagoniste non ci riescono. Quando nessuno ci guarda scopriamo la nostra intimità: non quella con gli altri, perché quella arriva solamente quando ce l’hai con te stesso. Quando nessuno ci vede possiamo comprenderci in modo pacifico, senza le proiezioni – false – degli sguardi degli altri.

Questo libro è uscito da pochi mesi. Com’è stato accolto dal mondo editoriale?

Ho conosciuto e sono andata a casa di Natalia Aspesi. Va bene? Scherzo, direi bene dal mondo editoriale. Non mi hanno detto sei bravissima, ma tutti mi hanno trattata in maniera molto saggia. Alcuni scrittori mi hanno dato dei consigli che ho compreso dopo l’uscita del romanzo. È stato molto bello.

Nel libro ci sono alcune pagine significative sul corto circuito fra editoria e social. Come muterà questo legame?

Sempre di più bisognerà abituarsi a un mondo letterario, una riserva indiana dove le parole avranno un significato, e poi al far west. Mi fa specie quando vedo scelte disoneste in contenitori che non sono disonesti. Il mondo culturale ha un problema: le persone, oggi, vogliono diventare famose, essere una voce influente, importante. Prima era un desiderio coltivato dalla gente normale, ora dagli scrittori. Vogliono piacere a tutti.

Sembra che lei non coltivi questo desiderio. Si aspettava un traino di lettori maggiore dai suoi lavori precedenti?

Il libro sta vendendo il giusto, costantemente, ma non c’è stato il boom. Sono contenta: significa che le persone lo stanno leggendo perché, forse, è interessante, non per la mia figura o per “Venti”.

Che cosa ha perso scrivendo questo romanzo?

Un sacco di leggerezza: tantissima. È come se ora giudicassi tutto con uno spirito critico. Prima non lo facevo, quindi mi godevo e pensavo che mi piacessero molte cose che ora non mi piacciono più. Sto cercando di capire dove mi colloco in questa mia nuova visione del mondo.

Questo non significa diventare adulti?

Sì, forse significa diventare adulti. Io sono cambiata molto, ma non solo grazie al libro: questo lavoro è causa e risultato di un mio cambiamento molto profondo. Mi sono finalmente detta una verità.

Quale?

Che era importante spogliare tutto quello in cui credevo dalla retorica. Un passaggio difficile, perché quando togli la retorica dalle cose ti chiedi: qual è il senso di quello che faccio?

La risposta?

Non ho ancora una risposta. Ho solo il sospetto, scrivendo questa storia, di aver perso per sempre la mia gioventù.

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