“La bambina dagli occhi d’oliva”, il nuovo romanzo di Davide Grittani su memoria e sensi di colpa. «Tutta l’indolenza si trasforma in peccato»

by Antonella Soccio

Un noir al contrario, a tinte chiare, scritto in maniera orizzontale, in prima persona e che lascia le domande tutte sospese sullo straziante finale, vessatorio e senza futuro.

L’ultimo romanzo di Davide GrittaniLa bambina dagli occhi d’oliva” Arkadia Editore Collana SideKar racconta le quotidiane colpe degli innocenti e i delitti che commettono anche i giusti, riportando al centro della scena i fantasmi solitamente più duri a morire: i sensi di colpa.

Prendendo a prestito le «verità nascoste male sotto le nostre tappezzerie» di Profondo Rosso di Dario Argento, Grittani allestisce un viaggio introspettivo, nella memoria e nell’amnesia, nel peccato del passato senza redenzione, che porta il lettore sin quasi dentro il pozzo nero della perversione e dell’incesto, in una cornice fatta di vuoti a perdere, come le case di riposo, le sale giochi, le periferie criminali in cui i bambini sono merce di scambio per il sesso putrido.

«Gli altri emulano, Davide Grittani scrive. E mi fa sorridere che si pensi che scriva storie alla Mazzantini. Io penso solo che abbia una bella stoffa,che scriva storie affascinanti e lo faccia benissimo», ha scritto di lui Margaret Mazzantini.

“… quello che facciamo ai bambini resta per sempre. Provano continuamente a dirci cosa gli è successo, con le parole, con i gesti e con i disegni, attraverso i loro strani comportamenti, ma preferiamo ignorarlo perché dovremmo chiederci noi dov’eravamo, cosa stavamo facendo mentre supplicavano il nostro aiuto”, si legge nell’intenso romanzo.

Noi di bonculture abbiamo avuto il privilegio di leggerlo in anteprima e di intervistare l’autore Davide Grittani.

Davide, in questo tempo in cui molti scrivono di grandi saghe o di biografie illustri ricostruendo fatti e Storia, tu scegli invece delle “vite di scarto” per citare Bauman. Come hai rintracciato queste esistenze e cosa ti ha ispirato?

«Durante il giro di presentazioni del romanzo precedente a questo, cioè La rampicante, ho conosciuto il grande Dario Argento. Quando gli sono andato incontro per ringraziarlo di aver girato un’opera filosofica come Profondo rosso, lui mi disse che giravano un sacco di leggende sulla genesi del film e che molti trascuravano l’impatto che su di lui aveva avuto un fatto di cronaca avvenuto nel 1972. Durante dei lavori di ristrutturazione in un appartamento signorile del centro di Roma, degli operai scorticando i muri scoprirono alcuni disegni macabri che quasi certamente erano stati fatti da uno o più bambini. In quella casa erano avvenute delle cose, non bellissime e chissà quali. E poi aggiunse che l’indirizzo entrò a far parte del film, ovvero via Crescenzio (zona Prati, NdA), in una delle scene chiave della ricerca dell’assassino da parte del pianista Marc Daly (interpretato da David Hemmings). Non mi sono ispirato a delle vite intorno alla mia, semmai a delle condizioni di vita. E la condizione di chi nasconde qualcosa sotto la carta da parati, senza temere che un giorno qualcuno scoprirà il mondo sinistro che ha occultato, personalmente mi incuriosisce molto. Quando abbiamo fatto i lavori nella casa in cui attualmente vivo a Foggia, molto più banalmente nella stanza dei bambini sono venute fuori delle scritte del tipo “Giovanni, amore mio. Non ci lasceremo mai, nessuno potrà mai separarci”. Indipendentemente da come siano andate le cose, quella scritta aveva due urgenze da comunicare: quella di non separare due persone che si amano, e quella di farlo sapere al resto del mondo. Per tutta risposta il mondo ha sepolto entrambe queste urgenze sotto la carta da parati, cioè sotto un altro strato di mondo. Ecco, a me interessano queste vite».

Mi ha molto colpito la parte dedicata a uno degli ultimi tabù italiani, la pedofilia. Mi ha toccato anzitutto l’assenza di luoghi comuni e di frasi fatte, di tutta quella terminologia infantile orrorifica, tipo l’orco, che si utilizza soprattutto nel gergo giornalistico. Tu da giornalista e da scrittore l’hai evitata sapientemente, così come hai evitato di prendere le parti del carnefice. Spesso si indugia nel mettersi nei panni di chi compie tali orrori. Essere dalla parte del male fa sempre effetto. È accaduto con Siti, ma anche nell’ultimo Lagioia per certi versi. Si indugia nel voler capire l’animo del “mostro”, per usare un altro termine classico.

Come sei riuscito a rimanere distante nel racconto? E perché hai scelto che tale malattia/perversione fosse insita in un borghese rispettabile? Secondo la tua esperienza quanto marcio c’è nella borghesia italiana? Quanta indolenza si trasforma in “peccato”?

«Bella domanda, se posso. Tutta l’indolenza si trasforma in peccato, tutta la noncuranza diventa colpa. Su questo tipo di sovrapposizione di responsabilità sociali, personalmente non ho dubbi. Il giovane Foggiano diversamente abile che si è suicidato perché continuamente bullizzato da barbari indegni persino della galera, non è stato ucciso da questi idioti ma da chi sapeva tutto e non ha fatto niente per evitarlo. Il mio romanzo affronta queste responsabilità, quelle di chi aveva le possibilità per interrompere la catena degli errori e non ha alzato un dito. Non saprei dire se queste cose avvengono esclusivamente nella borghesia, non credo. So per certo che più è elevato il grado di istruzione e benessere degli ambienti in cui si verificano queste omissioni, più le responsabilità diventano delitti veri e propri, strutturati anche dal codice penale. Nel corso della narrazione mi è venuto facile restare lontano dall’orrore della pedofilia, per il fatto che questo non è un romanzo sulla pedofilia ma sui sensi di colpa, sulle omissioni e sui delitti compiuti senza sporcarsi le mani. Magari pregando, recitando una “lode” o un “rosario”. Quelli sono i delitti a cui questo Paese sembra essersi rassegnato. Pasolini era ed è tacciato di moralismo perché accusava la politica e poi amava fare la bella vita, incalzava i poteri forti ma amava ricoprirsi di lusso e macchine alla moda. Il punto di osservazione è sbagliato, è innegabile che Pasolini fosse un omosessuale disposto a quasi tutto durante le sue battute di caccia notturne …, ma non è tollerabile che l’analisi della sua etica e della sua letteratura si fermino a questo mentre quella di sanguinari guerrafondai (che semmai hanno vinto il Nobel per la pace, NdA) sia riportata come un modello. Dove sta il difetto di fabbrica? Pasolini era frocio, tutto qua. Mentre il sanguinario aveva una famiglia e una vita privata scudata da ogni indiscrezione. Dietro ai vetri oscurati, impenetrabili, ci siamo giocati la vera Italia. Il Paese che soprattutto i romanzi, dei giornali nemmeno a parlarne, sanno più raccontare».

Hai scelto l’Io narrante, seguendo il punto di vista di Sandro Tanzi, un uomo che appare senza alcuna qualità, in cui è anche difficile immedesimarsi, pena scoprire il proprio personale fallimento. Volevi introiettare questi sentimenti nel lettore?

«E’ una tecnica narrativa molto comune soprattutto nei romanzi contemporanei, secondo me finanche troppo abusata. Ma con dei precisi distinguo, però. Richiede una lingua calda, abbastanza complice del Lettore. Con toni e aggettivi forti, con una muscolarità di fondo molto evidente e una ampiezza di aggettivi, sostantivi e soluzioni davvero imponente. Una lingua in cui i fari della macchina sono sempre puntati addosso al Lettore, quindi o si sa cosa e come scrivere in un romanzo così (con una forte pretesa stilistica e una prosa di un certo livello, NdA) oppure ogni tentativo potrebbe anche rivelarsi pretenzioso. Per quanto riguarda La bambina dagli occhi d’oliva avevo bisogno di una coscienza che facesse il pelo alle storture del personaggio, ricorrendo a una densità narrativa potente. Spero di essermela cavata … ».

La tua prosa continua ad essere lirica, elevata. In alcune metafore, il Lettore scopre delle associazioni mai pensate prima eppure così vitali, così vicine. Quanto tempo occorre alla tua scrittura per venir fuori? Quanto labor limae c’è?

«Non esiste un tempo stimato per una scrittura come la mia, esiste un tempo reale. Quello sì. E, almeno per me, non è inferiore ai tre anni. Tre anni credo sia il tempo minimo per un romanzo di duecento pagine con una struttura e una trama abbastanza semplici come le mie, ma con il ricorso a una prosa alta, certamente impegnativa e a tratti molto lavorata, quasi levigata parola per parola. Non saprei dire quanto occorre alla mia scrittura per venire fuori, so dire che La bambina dagli occhi d’oliva ha incontrato almeno sei stesure se non sette e che per ciascuna di esse sono state necessarie almeno tre o quattro revisioni. Senza contare l’editing, una volta acquisito dalla casa editrice che l’ha pubblicato. Ecco, “fare pace” con un romanzo il cui scopo è quello di farsi soprattutto rileggere (come i miei, NdA) vuol dire rassegnarsi a un tempo di “raffreddatura” e “sedimentazione” della scrittura non inferiore ai tre anni. Minimo tre anni. D’altro canto, mi fanno una invidia terribile quelli che riescono a pubblicare un romanzo all’anno. Talvolta anche due. Parlo di invidia per gli anticipi che intascano e per le copie che vendono, evidentemente, ma per quello che i loro libri contengono».

Sale giochi, case di riposo, giardinetti preda di pervertiti. Non luoghi delle nostre città, dove la vita si inceppa. Ci sono altre possibili storie da scovare in questi posti?

«Un treno, un tram, una signora truccata male che annaffia il giardino, due che si baciano su una panchina, altri due che invece si stanno lasciando sotto la tettoia di un bus, un infermiere che esce di casa col camice da lavoro, un operaio vestito come un banchiere con le maniche della camicia più lunghe delle braccia. Attraversare un incrocio a tre o cinque strade, in qualsiasi città del mondo, è uno dei romanzi più affascinanti che io conosca, uno degli esercizi di storytelling più ambiziosi e difficili che si possano tentare. Facciamo al contrario, permettimi di rivolgerti una domanda. Hai fatto caso che il 90% dei romanzi contemporanei descrivono ambienti familiari consolatori, situazioni ereditarie complesse, abbandoni durante l’infanzia o adolescenze prive di qualsiasi interesse che poi esplodono in una maturità ancora più priva di qualsiasi interesse (specialità della casa di una blasonatissima scrittrice italiana, NdA)? Non ci sono più racconti di un Paese andato, di un’antropologia che invece è ancora molto interessante. Gli autori non sanno esplorare più, invece poi esce Dogman e la gente impazzisce, ci si chiede noi dov’eravamo quand’è successo quel fatto di cronaca … ma non è il fatto di cronaca in sé a catalizzare le attenzioni, quanto la possibilità che un uomo mediocre e squallido come un lavacani possa trasformarsi in una macchina dell’odio e tornare poi ciò che era. Ci sono moltissime storie ancora a piede libero, molte delle quali aspettano di essere raccolte da giornalisti. Ma parliamo di un mestiere agonizzante, anzi deceduto».

Così come spaventano, le vite sconosciute sono le sole alle quali possiamo chiedere verità”, scrivi e pensa Sandro. Non ci si conosce mai abbastanza? Cos’è la verità per la tua ambigua e fatale protagonista, Angela/Angelica?

«La verità è un bicchiere di fiele. Nessuno vuol mandarlo giù, ma ogni tanto trovi uomini e donne in particolari condizioni della loro vita (dopo aver subito un lutto, dopo una brusca separazione o dopo essere sopravvissuti alla morte di un figlio, NdA) che al contrario cercano solo ed unicamente quella. Quella verità mi piace, è quella la verità a cui personalmente ambisco. La verità suicida ma limpida, pura perché già sconfitta dalla storia. Non la verità degli assessori regionali che promettono aeroporti per non raccontarci che in realtà non meritiamo altro, ad esempio che non meritiamo che ci venga restituita la dignità intellettuale con cui li abbiamo eletti. Mi interessa la verità assoluta, quella che ha il coraggio di dire le cose come stanno. Bevete il fiele, se siete ancora capaci di parlare dopo averlo mandato giù … ne parliamo. Questo genere di verità appartiene solo agli sconosciuti, a chi – per l’appunto – non deve fare campagna elettorale nelle nostre vite».

Roma appare nel romanzo una cornice bella e caotica. Il Winner (la sala giochi ndr) e gli zombie del romanzo sono elementi solo dei grandi centri urbani?

«Al contrario, credo sia una realtà molto più comune nei piccoli centri. Dove adunarsi in questi posti senza alcuna ambizione può cambiare la giornata, rendere la vita degna di essere vissuta. Le sale scommesse sono il cuore di questo romanzo, luoghi in cui il ruolo della fortuna e della casualità recitano una parte vera, letteraria, del romanzo. Questi zombie sbattono tra loro come macchine da scontro, si agitano e si mescolano con il loro carico di follia e di rancore come se non vi fosse alcuna speranza per loro. E invece il finale del romanzo svela che proprio il personaggio principale uscito da questa discarica umana a cielo aperto, cioè Freddie, è la cosa più bella che possa capitare quando più nessuno se l’aspetta. L’urlo di rivalsa che si avverte molto lontano, e che dice al Lettore … siamo ancora vivi, venite a prenderci».

L’infanzia e la famiglia. Sono questi i grandi nodi irrisolti italiani?

«In Italia le leggi per l’infanzia le fanno ministri senza figli, mentre quelle per la scuola le fanno altri ministri che non hanno mai fatto una fila alle Poste. Basterebbero questa assurdità per descrivere il punto di non ritorno a cui si è arrivati nel nostro Paese, tuttavia mi piace fare un esempio molto calzante credo. Per capire quale considerazione e qualche concetto si hanno dell’infanzia e del mondo adolescenziale, basti pensare al caso della “scuola in Puglia” durante la pandemia. Tutto il conto, salatissimo, della chiusura, della dad e delle sue terribili conseguenze sociali e psicologiche, del singhiozzo con cui il diritto costituzionale all’istruzione è stato esercitato, tutto quel conto dicevo … è stato presentato ai bambini. Abbiamo chiesto ai bambini dai sei ai quattordici anni di raccogliere i cocci del fallimento della politica e di pagare da soli i danni, sorvolando su ogni responsabilità degli adulti e su ogni abuso perpetrato nei loro confronti. Non c’è romanzo che tenga, tantomeno il mio. L’Italia è un Paese che ripudia i bambini ma che nel linguaggio comune e nella retorica politica si abbuffa di termini come “domani”, “futuro” e “generazioni a venire”. L’Italia è un Paese che non investe un soldo negli uomini e nelle donne di domani, però si perde in mesi e mesi di discussioni (umilianti per l’intelligenza dell’umanità, NdA) sulla declinazione giornalistica e letteraria delle professioni femminili. Non parlerei di nodi irrisolti, ma di modi di guardare davvero al futuro. L’Italia sbircia dalla serratura come i guardoni di Carlo Goldoni e Alberto Moravia, altri Paesi hanno aperto un varco e vogliono davvero guardarci dentro. Noi lo facciamo attraverso i romanzi, curioso no? E quando escono capolavori come Dei bambini non si sa niente di Simona Vinci, all’improvviso scopriamo che anche i bambini hanno una sessualità piuttosto attiva e che secoli di pedagogia (conservativa, anzi punitiva; NdA) sono andati improvvisamente a puttane».

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