La battaglia invisibile dei trentenni e “le risposte che non ho” di Concita De Gregorio

by Felice Sblendorio

La forza del nuovo libro di Concita De Gregorio, “In tempo di guerra” (Einaudi Stile Libero, 176 pagine, 16,50 euro), è tutta nello scenario sociale che riesce a rappresentare, in quella narrazione generazionale, poco presente nell’arena mediata del dibattito pubblico, che si anima e rafforza grazie a una storia e un volto.

I protagonisti di questo libro sono i trentenni, la generazione invisibile e schiacciata dalle determinanti pretese di un Paese sempre più vecchio e da una generazione inquieta – la social e selfie generation o la generazione z per intenderci – bisognosa di attenzione e di guide. Al centro di una scena decentrata, quasi isolati, ci sono i trentenni italiani. Marco, protagonista somma di una condizione comune, è uno di loro: il soldato di una guerra invisibile in un tempo di conflitti mascherato da tempo pace.

Un giorno, tramite “Invece Concita”, la rubrica che la giornalista di Repubblica riserva alle storie dei lettori, Marco si presenta e chiede ascolto: “Una settimana del suo tempo. Se vuole vengo a darle una mano, con le scatole e coi diari. Le faccio uno schema, così si orienta. Se vuole, vengo, davvero. Mi farebbe piacere”. Comincia così un viaggio che è singolare e collettivo, circoscritto e allo stesso tempo ampio. La storia di Marco, che la De Gregorio costruisce con i mille pezzi di un mosaico di storie diverse, è la battaglia campale di tutti: di tutti quelli che non trovano ancora il proprio posto nel tempo e nello spazio, oppure non trovano il modo di aprire la porta, come ricorda in epigrafe Julio Cortázar, per andare a giocare nel grande scacchiere del gioco del mondo.

Privato e pubblico, intimo e politico si specchiano, si uniscono in un racconto che si struttura in lettere, e-mail, diari, pensieri. C’è la formazione e l’illusione, la paura e la vulnerabilità, la solitudine, la famiglia e la politica. Ci sono loro e gli altri che nel vecchio mondo, quello che Marco conta con le sue tre generazioni che si porta sulle spalle, un posto ce l’avevano eccome: un bisnonno partigiano, uno comunista, una nonna santa, poi un medico, un professore, due genitori attivi nell’ultimo spazio di rivoluzione e sangue degli anni di piombo. Tutto si tiene fino a loro, fino a noi, fino a quella generazione smarrita che all’idea utopistica di cambiare il mondo ha opposto l’idea di protezione del mondo: se nulla si può salvare meglio ricomporre, tenere al riparo.

Le macerie del tempo vecchio, però, sono ancora tutte qui, presenti. La politica sorda, l’individualità come condizione stabile, l’incertezza di un futuro perché un cammino percorribile non si vede all’orizzonte, figuriamoci un approdo. Tutto confuso e indefinito in un momento senza cordinate: anche quelle distrutte, deturpate, sciupate in una depressione di impegno politico e di vocazione al bene comune che abbiamo ereditato dai padri.

“A noi non ha pensato nessuno: non gli interessavamo proprio. Alla nostra scuola sempre più disgraziata, al lavoro che avremmo cercato senza trovarlo, all’idea di mondo che sarebbe stato dopo di loro – non gliene fregava niente, gli importava vincere le primarie, di farsi eleggere e poi una volta eletti di restare lì, dal martedì sera al venerdì mattina in parlamento, magari al governo, a giocare al Risiko. Vabbè, nonno. Certo che quello che è successo dopo è pure peggio, ma la responsabilità di aver allontanato milioni di persone dalla passione per la politica di chi è: di chi è venuto dopo o di chi c’era prima e ha diserbato tutto?”.

In una prosa che è fatta di vita, Concita De Gregorio si mette all’ascolto di queste storie e, come fa da tempo con quel suo giornalismo mai disincarnato dai corpi e dai volti del quotidiano, semplicemente scrive, racconta. Conosce bene il potere della narrazione, di una storia evocativa. Se i dati sfuggono e le statistiche che indicano disoccupazioni e disagi giovanili vengono archiviate in un servizio conclusivo di tg, le storie restano a testimoniare una condizione, un’inquietudine.

Le storie restano e, restando, si trasformano in un luogo accogliente: ci sei tu, nonostante non sia realmente così, a riconoscerti. Le lettere di Marco, soldato singolo di una generazione sola (l’unico vero “Noi” presente in questo libro è quello con la sorella, Anna), si alternano a quello che la De Gregorio si sente di dare: nessuna risposta preconcetta, nessuna teoria che resta vivibile solo sulla carta. Così regala piccoli spunti di sapere che aprono al futuro, a una diversa prospettiva: “le risposte che non ho”.  Sono appunti, lettere, poesie, frasi, canzoni, ritagli di giornale.

Ci sono le sottolineature di Osvaldo Lamborghini e il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann, la poetica lieve e disperata di Alejandra Pizarnik e la partenza senza saluto di Ivano Fossati. Poi Bolaño,Carol Rama, la rivoluzione di Omezzine Khelifa e Alex Langer che, in questo contesto, a rileggerlo risuona inascoltato e profetico. “Sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è il messaggio cardine che ci viene dato. Io vi propongo il contrario. Vi propongo lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini. Più lenti invece che più veloci, più in profondità invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli – insomma più roboanti. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo”.

Langer pronunciò queste parole al Convegno Giovanile di Assisi nel 1994. Il fiato più lungo: un miraggio, oggi. Proprio quello che è mancato alla politica e alla società per proteggere questa generazione sperduta che ora, con difficoltà, si orienta per riparare questo mondo con più incertezze che risposte. Sono trentenni i capitani delle Ong che salvano vite umane in mare senza sapere come andrà a finire ogni viaggio. Sono trentenni i giovani che studiano e lasciano questo Paese senza sapere se ci sarà un ritorno. Sono trentenni i ragazzi che, partendo da Bologna, sono scesi in piazza per riprendersi uno spazio, un vuoto, per rivendicare la paternità di un dibattito pubblico diverso da quello appaltato all’odio, per ritrovare i valori di una sinistra che ha abdicato alla sua missione. Una missione che oggi scotta nelle mani dei più giovani, in un tempo di luce e futuro che, prendendo in prestito alcuni versi di Pasolini, non cessa un solo istante di ferirci.

Pn credits Niki Dell’Anno

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