“La casa nella pineta”, tra privilegio borghese e restituzione. Pietro Ichino: “Sta a noi scavare il bello, il degno di essere vissuto”

by Antonella Soccio
Pietro Ichino

Il dialogo col professor Pietro Ichino sul suo primo romanzo “La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento” edito da Giunti è uno dei momenti più attesi di Lectorinfabula, il festival culturale europeo di Conversano promosso dalla Fondazione Di Vagno.

Sabato sera il docente, giornalista, scrittore di innumerevoli saggi best sellers e politico italiano, nel Giardino dei Limoni del centro pugliese, porterà il suo racconto intimo ed autobiografico, un grande affresco di un’epoca, in cui le vicende pubbliche del Paese e dell’Europa, le istanze giuslavoristiche e i cambiamenti del mercato del lavoro, si intrecciano con la storia di una famiglia italiana che raccoglie in sé l’eredità ebraica e un cattolicesimo dalla forte vocazione sociale. Il tutto in una casa borghese estiva versiliana, in cui il giovane Ichino si abbevera alla cultura e alla passione intellettuale, umana e civile di grandi protagonisti della Storia come don Lorenzo Milani.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Professor Ichino, nel suo libro La casa nella pineta, che presenterà a LectorinFabula, si legge più volte la massima che le ripeteva la sua nonna: “Non puoi mai sapere se quel che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male. Anche perché, in realtà, se è per il tuo bene o per il tuo male dipende soltanto da te“. Quanto c’è di casuale nella nostra vita e quanto lo decidiamo noi?

Di casuale c’è moltissimo, quasi tutto. Il punto è che, dovunque il caso ci porti, spetta a noi scavare per trovare il bene, il bello, il degno di essere vissuto, che si nasconde dappertutto.

Proprio dappertutto?

Sì, proprio dappertutto. In questo si esprimeva la fede che la nonna si è proposta di trasmetterci fino all’ultimo: la fede che Dio è in tutta la nostra vita, qualsiasi cosa accada e dovunque essa si svolga; tutto sta nel saperlo cercare e trovare. Non è la fede in qualche cosa di lontano, di trascendente, o di soltanto immaginato. È la fede che si nutre dell’esperienza del bello e del buono che scopriamo anche dove mai lo avremmo sospettato, a cominciare dal legame che ci unisce ai nostri simili; di tutto quanto dà un senso alla nostra vita e ci separa dal nulla. Tutto questo è più forte del caso, di qualsiasi evenienza fortuita.

Il suo romanzo è centrato sul tema del privilegio e sulla frase consegnatale da don Milani: “Dovrai restituire tutto”. Traspare dal suo libro il fatto che lei si è sentito un privilegiato anche quando ha lavorato per restituire quanto aveva già ricevuto dal destino, in termini di ricchezza e cultura.

Il privilegio dell’istruzione e dell’educazione non ce lo si scrolla mai di dosso. Nel mio caso, poi, la scelta di dedicare dieci anni della mia vita al movimento sindacale in adempimento del “dovere di restituire” impostomi da don Lorenzo si è tradotta – senza che io lo abbia minimamente cercato – in un raddoppio del privilegio, con l’elezione al Parlamento.

È diventato deputato in età molto giovane: quale rapporto c’è tra quello che lei visse allora come un privilegio e quello attuale di tanti parlamentari selezionati da una piattaforma o dalla sorte dei listini?

Le forme della politica sono molto cambiate. Ed è molto cambiato, in peggio, il modo in cui il personale politico è percepito dall’opinione pubblica prevalente. Alcuni benefit un tempo riservati ai parlamentari sono stati soppressi. Però è rimasto il privilegio di fondo, proprio di chi siede alla Camera o al Senato: quello di partecipare alla formazione delle leggi e dell’indirizzo politico del Paese. Vedere e vivere dal di dentro il meccanismo della politica nazionale.

Nel libro è molto presente il dissidio tra l’anima riformista e quella massimalista della sinistra, fino alla “rottura” che si compì con la pubblicazione del suo saggio Il collocamento impossibile. Lei è stato uno degli ispiratori della riforma “Jobs act”. Che bilancio ne trae, oggi?

Tra il 2012 e il 2015, prima con il Governo Monti poi con il Governo Renzi, ho partecipato in prima linea a una profonda riscrittura di tutto il nostro diritto del lavoro. E ho avuto la grande soddisfazione di veder accolta dal Parlamento, ancora una volta, un’idea per la quale mi ero battuto da un quarto di secolo, per lo più in solitudine.

Quale?

Quella della necessità di superare il regime della job property, un regime che pretendeva di costruire la sicurezza economica e professionale dei lavoratori su di una sostanziale “proprietà del posto di lavoro”. Era un regime che faceva del mercato del lavoro italiano un unicum rispetto all’intero mondo occidentale. E faceva della protezione forte garantita dal diritto del lavoro un privilegio cui poteva accedere di fatto meno di metà dei lavoratori. La nuova disciplina dei licenziamenti è stata modificata l’anno scorso, ma il superamento della job property è stato confermato sia dal nuovo Parlamento, sia dalla Corte costituzionale.

Come si è sentito nell’essere ancora una volta dopo gli Anni Ottanta e i primi Duemila una voce fuori dal coro dentro certa sinistra ortodossa?

Questo è stato il mio destino fin da quando ho mosso i primi passi nel movimento sindacale e nella vita politica. La sinistra-sinistra ha sempre considerato le mie proposte come delle eresie, se non come dei veri e propri tradimenti. Però poi, quelle stesse proposte – in materia di collocamento, di lavoro a tempo parziale, di agenzie del lavoro temporaneo, di disciplina dei licenziamenti, di decentramento della contrattazione collettiva – hanno sempre finito coll’essere accolte. E non da maggioranze di centro-destra, ma di centro-sinistra.

Se la domanda non le appare troppo scontata, le chiedo un giudizio sul nuovo Governo e sui cambiamenti in atto.

Il nuovo Governo è nato dall’esigenza di evitare un rischio catastrofico per il nostro Paese: quello dell’uscita dall’Unione Europea e di un avvicinamento strategico alla Russia di Putin, al quale la Lega di Salvini è strutturalmente votata. Quindi anche il rischio dell’abbandono del modello liberal-democratico e del valore dell’economia aperta. Con questo Governo l’Italia torna protagonista nel processo di integrazione europea. Ce n’è quanto basta e avanza per darne un giudizio positivo. La svolta, però, deve ancora consolidarsi; e i rischi di una crisi della nuova coalizione sono sempre in agguato.

Quel riformismo a cui lei appartiene oggi sembra aver preso una strada nuova con Italia Viva. È verso nuovi valori che si muove il riformismo?

La componente liberal-democratica è ancora quella che connota politicamente il Pd in modo decisivo. Certo, la scissione di Renzi la ha un po’ indebolita: per questo avrei preferito che a costruire il nuovo partito di centro si dedicassero invece Carlo Calenda e Stefano Parisi, magari in collaborazione con Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Ma il Pd resta il pilastro fondamentale della scelta europeista del Paese. E oggi non può esistere un riformismo serio che non sia centrato su questa scelta europeista.

Cosa dobbiamo aspettarci in tema di politiche del lavoro se lo strumento principe dell’alleanza giallorossa resta il reddito di cittadinanza?

Resta ancora molto da fare per dotare il Paese di un sistema efficiente e moderno di servizi al mercato del lavoro; e su questo terreno vedo buone possibilità di cooperazione tra la ministra del Lavoro Catalfo e i “lavoristi” del Pd Tommaso Nannicini, Stefano Lepri, Annamaria Parente. Quanto al reddito di cittadinanza, se si correggono alcune esagerazioni esso può ben diventare una versione potenziata di quel Reddito di Inclusione, che è stato una delle realizzazioni più importanti del Pd nella passata legislatura, sul piano della politica sociale.

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