“La città dei vivi”: Roma e la galassia nera di chi non riesce a distogliersi da se stesso. Un dialogo con Nicola Lagioia

by Felice Sblendorio

Dei casi di cronaca crediamo di sapere tutto, ma è un’illusione. Sull’orrido omicidio di Luca Varani, il ventitreenne ucciso a Roma nel 2016 con più di cento coltellate e martellate, l’illusione si incrina leggendo “La città dei vivi” (Einaudi, 472 pagine, 22 euro), il nuovo libro di Nicola Lagioia, già Premio Strega nel 2015 con “La ferocia”.

Difficilmente definibile, ma più simile a una violenta tempesta che a un romanzo, questo lavoro dell’autore barese è un tentativo di comprensione e svelamento. Serviva uno scrittore di razza per indagare una realtà irreale, per trasportarci scena dopo scena in un omicidio incomprensibile che ci trascina in una zona emotivamente tortuosa e impraticabile. Se la legge si sforza di comprendere nei limiti della ragione, la scrittura sfida l’ignoto, la retorica, il giudizio, l’impossibilità di dare forma all’informe. Tenta di decifrare l’uomo dietro la colpa con gli strumenti della letteratura che, come ha scritto Walter Siti su Domani, «a differenza del cattivo giornalismo non conosce mostri; il mostro è consolatorio, significa che noi umani non saremo mai così, e invece qui tutto è umano».

Lagioia ci prepara ai fatti e, in un equilibrio quasi perfetto fra struttura narrativa e stile, ci racconta le ombre che affollano quella casa al decimo piano di Via Igino Giordani. In uno spazio traboccante del disordine cupo dei carnefici, sotto un piumone intriso di sangue c’è il corpo di Luca Varani, condotto da un destino cieco in quel palazzo e poi subito torturato allo scoccare del terzo giorno di cocaina, sballo e delirio di Marco Prato e Manuel Foffo.

Nonostante l’ultimo atto di questa danza della morte si svolga nelle prime ore del giorno, Lagioia ha l’abilità di mostrarci tutta l’oscurità della mente dei carnefici. Un buio che fagocita gli uomini e le cose, una città sanguigna e spettrale come Roma – a quel tempo senza una guida politica ma con un eccesso di santi in terra grazie alla compresenza di due pontefici – e la nostra coscienza, dopo questo libro fortemente terremotata da certi nostri demoni sempre in cerca di riscatto. bonculture ha intervistato Nicola Lagioia.

«La città dei vivi» è Roma. In uno scenario che contempla solamente l’eccesso, l’obbedienza al vitalismo sfrenato può portare a uccidere?

Il vitalismo sfrenato, di solito, porta a infierire più su se stessi che sugli altri. I grandi vitalisti erano dei depressi. Foffo non era un vitalista, ma una persona ombrosa. Prato era istrionico, manipolatorio, con dei buchi neri abbastanza profondi. Sullo sfondo poi c’è Roma, una città dove l’eccesso di vitalismo e lo sfascio vivono assieme. Roma, in un ossimoro, è una specie di turbolento centro della paralisi: una città paralizzata e turbolenta che è come se ribollisse in se stessa e su se stessa. Come se sprofondasse su se stessa, ribollendo. Una città morta e risorta che, come tutte le città non giovani, ha una strana sapienza della propria finitudine. New York non crede di morire, Roma sì. Il concetto di permanenza i romani ce l’hanno nel sangue: qui il mondo è finito e risorto mille volte.

Oltre l’incubo dei mostri, ha tentato di ricomporre le personalità – forse indefinite, o forse mal definite – dei carnefici. Chi erano questi ragazzi?

Erano considerati assolutamente due ragazzi normali. Se a Prato e a Foffo avessero annunciato una settimana prima dell’omicidio che avrebbero torturato un ragazzo che nemmeno conoscevano, nel caso di Foffo, o che conoscevano a malapena, nel caso di Prato, sicuramente avrebbero pensato a un film di fantascienza. Colpisce l’apparente normalità di chi si ritrova al centro di un caso come questo e la normalità percepita: se non ci fosse stato questo omicidio non si sarebbero rivelati neanche a se stessi come mostri. Allontanando paragoni con altri crimini, in particolare il massacro del Circeo, qui non siamo di fronte a due persone che sono riuscite sapientemente a maneggiare il male. Foffo e Prato sono stati due apprendisti stregoni sopraffatti da una catena di cause ed effetti che hanno messo in moto e poi non sono più riusciti a controllare. Il che non riduce le loro responsabilità e la loro colpevolezza, ma introduce una dinamica alternativa.

Si riferisce a certe dinamiche che azzerano la responsabilità e la colpa sospendendo il libero arbitrio. Dove ci porta questa compromissione?

Da una parte mi colpisce che loro riconoscano quello che hanno fatto, ma dall’altra mi inquieta la negazione a se stessi della scelta del massacro. Arrivano a chiedere ai loro accusatori il perché di quella tragedia dato che non sanno nulla del movente, della ragione di tanta violenza, del senso di quel gesto. Sono quasi pronti a riconoscere le conseguenze del delitto, ovvero la galera e una lunga detenzione per Foffo, ma non il processo mentale ed emotivo che li ha scaraventati in quel baratro. Parallelamente a questo fatto, e in maniera avventurosa, credo ci sia una corrispondenza con quello che succede nel mondo. Abitiamo da qualche tempo nel cosiddetto Antropocene, la prima età geologica in cui i cambiamenti sono dovuti esclusivamente all’uomo, ma allo stesso tempo ci sembra tutto fuori controllo perché non riusciamo a fermare un’epidemia o a regolare i cambiamenti climatici che abbiamo innescato. Fra il micro e il macro-mondo, questo delitto racconta molto di noi e del concetto di responsabilità. Nel mondo il cambiamento climatico c’è, ne siamo responsabili, ma non riusciamo a ricondurre questa responsabilità collettiva a una responsabilità individuale, che poi è il fondamento dell’uomo moderno. Nella loro interiorità questa responsabilità, ad esempio, non esiste.

Lei scrive che «Nessuno è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono». Se non delle tragedie, questi due ragazzi erano all’altezza dei propri fantasmi? La loro dimensione era complicata dalla droga, dalla confusione sessuale, dal vuoto…

Manuel si sente la pecora nera della famiglia, l’incompreso, un membro non valorizzato abbastanza da quella figura di riferimento che gli conferirebbe sicurezza: suo padre. Non riesce a venirne a capo: si impegna, vorrebbe emanciparsi dalla famiglia, ma si muove nel fallimento perchè non ha una prospettiva di futuro. Questo è il primo fantasma. L’altro è sicuramente quello dell’identità sessuale. La sua fragile identità viene messa in crisi dal rapporto con Marco Prato, dal quale si sente ricattato. Credo che Foffo sia etero, ma un etero introiettato in una cultura talmente machista, patriarcale e omofoba che ha trasformato quella sua esperienza omosessuale in un’enorme vergogna.

Una vergogna che non è svanita nemmeno dopo l’omicidio. Da alcune trascrizioni riportate nel libro il problema di Foffo è ancora la cattiva fama di «frocio», non di assassino.

Credo di poter dire che una persona più libera o un eterosessuale sereno con se stesso non senta sulle spalle la colpa più mostruosa del mondo dopo un’esperienza gay. Per lui è una tragedia perché appartiene a quella cultura. Marco Prato, che si è suicidato in carcere un anno dopo il delitto, non si trovava invece a suo agio con il suo corpo, voleva diventare una donna, era un adescatore seriale di eterosessuali con cui andava a letto sotto gli effetti della droga e dell’alcool. Il suo fantasma era il mancato affetto della madre.

Non crede che queste carenze affettive accampate dai due soggetti siano dei pretesti? In fondo non c’è un fattore scatenante a motivare questa violenza.

La cocaina, la sessualità e il vuoto sono elementi che assediano in modo profondo i protagonisti, ma non sono sufficienti. Credo che il tema sia la scarsa capacità di distogliersi da se stessi. Solamente quando ti distogli da te stesso riconosci l’altro. E quando nell’altro riconosci una parte di te, conferisci a lui un elemento di umanità, di rispetto. In loro, questo meccanismo non si è attivato, sennò non avrebbero ridotto Luca a una cosa inumana. Riesci a colpire in quel modo solo se dimentichi l’umanità dell’altra persona. A meno che non si siano dimenticati di essere umani e, infierendo su Luca, hanno tentato di uccidere una parte di loro.

L’opinione pubblica spesso ha offeso la dignità della vittima. «Bisognerebbe amare la vittima senza sapere nulla di lei», scrive. Con Luca non è successo: tutto si è confuso, addossando su di lui anche la fatalità di quel tragico incontro.

Per me la vittima è totalmente incolpevole. Qualunque sia il motivo per cui Luca Varani fosse in quella casa nulla giustifica quell’orrore. Il «se l’è andata a cercare» lo rigetto con forza. Tutte le vittime sono innocenti.

In quella triste danza della morte, le variabili spazio-temporali sembrano sospese. È una storia che si muove nell’assoluto?

In quei tre giorni è come se fossero finiti in una specie di buco nero. Non a caso cito un buco nero, perchè si dice che nei buchi neri il tempo si annulli o, addirittura, si fermi. Quei tre giorni sono durati un secondo oppure cento anni. Anche l’appartamento – dal primo al terzo giorno – si trasforma, diventa sempre più disordinato, trattiene una dimensione macabra ancora prima del delitto. Ho immaginato questo bilocale come una navicella spaziale che, in un’altra dimensione, si inabissa sempre di più in una voragine. All’interno di quella navicella ci sono due persone che si immergono in una galassia nera che a un certo punto non riescono più a fermare.

Un tema ricorrente nella sua letteratura è la famiglia. In questo caso le famiglie sono sfibrate, con i padri che parlano troppo di sé e le madri rinchiuse nel loro silenzio. Non trova che in questo dramma ci sia stato un eccessivo protagonismo maschile?

È vero. Le donne sono assenti. Tranne una presenza silenziosa e forte come la mamma di Luca, che ha una capacità di gestione del dolore dignitosissima e commovente, evidentemente nelle altre famiglie è stato chiesto ai maschi di occuparsi del caso, di parlare con i media.

Una richiesta o una pretesa?

Credo sia un automatismo frutto non di una decisione, ma di un’abitudine. I maschi hanno gestito tutto dando l’idea di essere fuori tempo massimo. In un periodo storico in cui c’è un nuovo e indispensabile protagonismo femminile, se le donne avessero preso in mano la situazione forse oggi racconteremmo una storia diversa. O, forse, con una mediazione femminile queste tre famiglie avrebbero potuto dialogare fra di loro. Il padre di Luca Varani si è sempre detto molto deluso perchè nessuno l’ha cercato. Le donne avrebbero saputo dialogare meglio dei maschi? Non lo so, ma quando parlo di un mancato incontro cerco di capire senza giudicare. Sono famiglie devastate che non sono riuscite a contenere una tragedia. Ma come si fa a contenere una tragedia? Oramai siamo disabituati a questa parola, siamo disabituati all’irreparabile. Il mondo in cui viviamo ci illude che tutto possa essere gestito, che tutto quello che facciamo sia reversibile: come un videogioco in cui si muore, e subito dopo si rinasce.

La letteratura cerca di comprendere, di sospendere il giudizio, di riordinare la realtà. Però ci sono alcuni momenti tragici o ironici difficilmente immaginabili. La scena di Manuel che dorme accanto al corpo martoriato di Luca e si sveglia per andare a un funerale è una di queste. La realtà vince su tutto?

Se avessi voluto inventare una storia del genere non ci sarei mai riuscito, perchè tutta una serie di episodi sarebbero risultati inverosimili e alcuni fatti ironici macabri. Il comico, non l’umorismo, è un elemento di crudeltà in cui convivono aspetti grevi e violenti che dialogano con la morte molto più di quello che si possa pensare. Alla fine, solo la realtà può permettersi il lusso di essere inverosimile. Documentando la realtà rendi veritiero ciò che la finzione non avrebbe reso credibile.

George Bataille, autore de “La letteratura e il male”, ha scritto che la letteratura se si mantiene lontana dal male diventa noiosa. La sua non corre questo rischio: nel male e nella ferocia, da scrittore, cosa comprende meglio?

Scrivere è sempre un’esperienza conoscitiva. L’oscuro mi aiuta a capire meglio come siamo fatti. È un’ossessiva ricerca sui comportamenti umani, su quello che ci portiamo dentro, sul modo in cui reagiamo alle cose che ci succedono, sul fatto di non riuscire a essere mai all’altezza di chi vorremmo non accettando questo scarto. Un libro del genere mi ha portato a riflettere sui buchi neri del nostro animo.

Questo delitto la ossessiona dal 2016. Cosa ha scosso nell’intimità dell’uomo e dello scrittore?

È facile dire: «potevo essere io», ma non arrivo a pensare questo perchè sarebbe eticamente scorretto nei confronti di chi ha vissuto la tragedia. Credo che rivedere nei comportamenti altrui alcune cose personali o del proprio passato sia un percorso obbligato per qualsiasi scrittore. In questo libro racconto due o tre fatti della mia vita privata che possono aver risuonato in me quando ho scoperto per la prima volta questo delitto. Anche quando non l’ho dichiarato questo riconoscimento c’era. La letteratura deve sempre rintracciare quella parte di te che avrebbe potuto essere in una condizione estrema.

Torniamo sul confine sottilissimo che ci separa dal baratro. Come ci si salva?

Ci si salva con gli altri. Mettendo da parte l’orgoglio: una brutta bestia. L’orgoglio è quel sentimento che ti impedisce di chiedere aiuto. L’orgoglio è amico della vergogna, una cosa colpevole perché non è un dono o un privilegio etico, ma uno scoglio da superare per salvarsi. La perdita dell’innocenza, poi, non è mai una cosa irrimediabile come ci raccontano in certi film americani. E questo non è un pensiero da anima bella o da creatura. Proprio dalle creature innocenti che siamo stati e non siamo più bisognerebbe imparare qualcosa. I bambini ci chiedono aiuto: e non capisco perchè un adulto non possa reimparare a chiedere aiuto quando il terreno sotto i suoi piedi comincia a sbriciolarsi rovinosamente.

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