La fortuna di Valeria Parrella: «Piuttosto che pensare di avere paura, preferisco vivermela quella paura»

by Felice Sblendorio

Fra le pagine del suo nuovo romanzo “La fortuna” (Feltrinelli, 144 pagine, 16 euro) il suono limpido delle parole di Valeria Parrella è intatto, riconoscibilissimo. Nella sua letteratura, sin dall’esordio con “Mosca più Balena”, le cose della vita trovano sempre il proprio posto, nonostante il disordine e il dolore.

In questo romanzo, che si allontana apparentemente dai suoi tòpoi canonici, l’autrice napoletana racconta la storia di Lucio, che vive a Pompei fra il 62 e il 79 dopo Cristo, sogna di fare il marinaio e tenta la fortuna (o la sorte) per far assomigliare la vita ai suoi desideri. Una metafora dal classico per tentare di decifrare il coraggio e il limite, la paura e lo smarrimento del nostro presente. bonculture ha intervistato Valeria Parrella.

“La Fortuna” non racconta il presente attraverso i classici, ma indaga se il classico – restando classico – riesca a raccontare il contemporaneo. Perché questa scelta?

Il contemporaneo non si può raccontare con gli occhi del contemporaneo quando non capiamo in che mondo ci stiamo muovendo. Dopo una pandemia, una guerra e un’inflazione noi non sappiamo che mondo è il nostro: non stiamo ri-facendo nulla, non ci conosciamo, semmai stiamo facendo in maniera nuova delle cose. Ci sono occhi che raccontano bene il presente, penso a Paolo Giordano o Alessandro Baricco, ma io non sono pronta, ho bisogno di un tempo lungo: la mia scrittura ha bisogno del tempo giusto per capire cosa è successo. Però a me interessa molto quello che succede, così mi sono chiesta: come faccio a raccontare quello che succede, se la realtà non mi offre le parole giuste? Le cerco in un altro tempo in cui è successo qualcosa.

Così è arrivata a Pompei.

Pensando a un cataclisma mondiale ho immaginato qualcosa che la gente non conosce, qualcosa che crediamo sia finito e, invece, ricomincia. Più che alla peste di Atene, ho pensato subito a Pompei.

È davvero un romanzo così diverso dai suoi precedenti? Sembra che ci siano tutti i suoi temi: il limite, il destino, il desiderio, il dolore, la morte.

Lo scrittore Domenico Starnone, prima che il libro uscisse, mi ha detto: «È il tuo solito romanzo, hai dovuto solamente studiare un po’ di più». Credo sia vero: racconto il limite e il tentativo di superarlo, il desiderio, la nascita, la morte. I miei libri, come tutti i libri forse, sono alla ricerca di come si sistemano le cose: il dolore, la malattia, il lutto, l’offesa. Scrivo sempre di come ci si muove nelle tragedie quando ti trovi personalmente a tenere dritta la barra della nave e a reggere la sorte.

La lingua in queste pagine è ancora più precisa, più essenziale.

Nei libri di avventura bisogna usare una lingua pulita e quando racconti una grande avventura lo devi fare in maniera precisa. Io poi sono invecchiata, sia umanamente che come scrittrice, e capisco sempre di più che devo andare dritta, non devo arzigogolare. Questa è una conquista che le grandi scrittrici avevano capito subito. Penso a Natalia Ginzburg. Lei scriveva concetti semplici che fanno ancora piangere. Si può leggere Ginzburg senza piangere? No. E dove colpisce? Nella linearità. Le stesure di questo libro sono state dedicate alla lingua e all’epurazione delle parole. La trama la sapevo sin dall’inizio: chiunque si metta davanti a un vulcano, in fondo lo vuole vedere eruttare.

Lei, però, cambia prospettiva: l’eruzione la racconta dal mare.

Quando scrivi un libro con Napoli e Pompei dentro è tutto pericolosissimo, così mi sono allontanata dal romanticismo tipico di certe pagine su Pompei cambiando prospettiva. Io poi abito a Bagnoli, l’ultimo quartiere di Napoli prima di Pozzuoli. Durante il lockdown correvo sul terrazzo e a un certo punto ho visto lampeggiare il faro di Capo Miseno. Lampeggiava e io mi sentivo tranquilla. Così mi sono domandata: chissà quante persone avrà tranquillizzato. Da Capo Miseno partì la flotta di Plinio. Nel libro arrivo a Pompei dal mare: che è il modo in cui ci arriverei ora. Arriverei a Pompei dal mare, dall’esterno, non da terra.

Questo romanzo parla tanto del desiderio. E di come riconoscerlo, coltivarlo, superare i limiti sul proprio cammino.

È il punto di crisi di tutti noi con il destino: la differenza fra ciò che vogliamo e ciò che siamo. Pensare di colmarlo è la sfida più bella. Limite e destino sono due parole che si intrecciano: il limite è una cosa che ti si oppone, il destino sembra scritto. Che cosa può vincere il limite per andare incontro alla nascita del sé? Il desiderio. Voglio quell’uomo, voglio quella donna, voglio fare il marinaio o la scrittrice. È una cosa anche infantile, però è vera: ci muove sempre il desiderio.

Siamo sempre all’altezza dei nostri desideri e dei nostri talenti?

Non è necessario esserne all’altezza e non è necessario essere eroi. Mi piace moltissimo chi ci riesce. I paesi molto poveri, come Napoli e i Sud del mondo, ti chiamano un poco di più a questa cosa. Vedi troppa disperazione, persone che non ci riescono e devi avere per forza gli occhi per guardare. Ci sono posti che ti chiamano continuamente all’azione civile.

Lucio segue il suo desiderio: è giovane, caparbio, sembra che le alternative non esistano. Si rivede in queste fortune della gioventù?

No, perché così sono i ragazzi. Io sono una che ha dovuto fare molti compromessi. C’è anche una grande morbidezza nel compromesso perché è bellissimo quando riesci a concederti una via di mezzo. Io non sarei Antigone, sarei Ismene, però mi piacciono le Antigoni. E le Antigoni possono avere solo 16 anni. Quell’età è bellissima perché si è assoluti, si vuole fare la rivoluzione, si pensa che se tu sei così non puoi essere altro. Che se ami i 99 Posse non puoi amare Baglioni. A cinquant’anni, invece, ti puoi permettere di amare i 99 Posse e di cantare “Quella sua maglietta fina”. A quell’età non te lo puoi permettere perché sei caparbio, energico, bellissimo. La forza di Lucio è un omaggio a loro.

Sembra un ragazzo magico di oggi, Lucio: si innamora, ma la sua sessualità non è definita, non è statica.

È una cosa vera per tutti: noi ci innamoriamo sempre. I compartimenti e le classificazioni sono una posizione sociale o religiosa che abbiamo interiorizzato e che crediamo nostra. Chiunque abbia sperimentato un bacio che non si aspettava sa che non è così. L’amore fluido, così discusso in questo tempo, ha un suo senso perché esclude una rigidità sentimentale. Noi siamo fatti esattamente così. Ed è una cosa molto più vera di quando ci proclamiamo eterosessuali oppure omosessuali.

In uno dei passi più belli del libro scrive: «L’idea che ci facciamo del mondo è il mondo finché non ci diranno, no ce n’è un’altra porzione, no ci sono altre leggi, no non ci vedi bene – oppure non te lo diranno mai e allora ti crederai quel mondo finché non arriverà il sicario a rimetterti al tuo posto».

Pensavo a Putin quando ho scritto questa frase.

Perché?

Chi ha un enorme potere è come un bambino. I bambini si considerano onnipotenti: mamma e papà mi guardano, sono bravissimo, non mi scontrerò mai con il mio limite. Poi, però, i limiti arrivano. Così ho pensato che, in certi casi, serva un sicario per comprendere il limite: quanto bene ha fatto Bruto quando il potere di Cesare diventava sempre più autoritario? Quanto sarebbe stato comodo per Putin che i sicari fossero arrivati prima dell’invasione dell’Ucraina? Quando non arrivano le maestre, forse serve un sicario per rimetterti al tuo posto.

È sempre indispensabile lo sguardo degli altri sulla nostra esistenza?

Mi dispiace dirlo ma è così: abbiamo sempre bisogno degli altri per guardarci meglio. Quasi tutta la fatica della mia età adulta è non fottermene tanto, perché me ne fotto troppo. Lucio ha avuto grandi maestri. Io ho avuto persone che mi hanno riconosciuta come scrittrice. Se Nicola Lagioia non avesse pescato il manoscritto del mio esordio oggi, ad esempio, non sarei qui.

Se per molti la scoperta è timore, per Lucio è uno stupore.

Lo stupore non è una cosa negativa. Quando succede qualcosa che non ti aspetti, quando ti rivelano delle parti di te che non conosci, oppure quando le cose non vanno come nei tuoi piani, io non credo che ci sia qualcosa di negativo. Penso che ne possa venire solo bene perché si arriva a un livello di conoscenza superiore. E la conoscenza è bella in sé, non è sempre finalizzata. La vita molto spesso è un ostacolo, ma è un ostacolo sorprendente. Se lo riesci ad aggirare sei più forte. Se non ci riesci, anche solo il fatto che te lo sei messo davanti è già un risultato.

Qual è lo stupore più importante della sua vita?

Non ci ho mai pensato. Ho avuto dei dolori: mia madre è morta presto e mio figlio è nato presto. Tutte cose successe prima del tempo. Però non le considero ostacoli, ma sorprese. Mi sconvolge il disorientamento. Una cosa, anche se è dolorosa, è chiara, è evidente. Mi sconvolgono solo le cose che non capisco.

Che cosa la sorprende, invece?

Mi sorprende sempre la gioia. Ho letto un libro di Eugenio Borgna in cui diceva che la felicità ha una forma che conosciamo, mentre la gioia sorge inaspettata. Quando sono gioiosa provo una gratitudine enorme per la vita. Il cuore si riempie: è come se vedessi sorgere un fiore dal cemento.

Prova gioia anche per la persone, per gli umani?

Sì, per mio figlio. Quando mio figlio fa delle cose che non pensavo avrebbe fatto mi riempio di gioia. Mi meraviglio. Mi dico: «Mamma mia, chi se lo aspettava».

Lucio non vede da un occhio, ma non è un limite. Perché nella sua letteratura ritornano spesso questi protagonisti con piccole o grandi mancanze fisiche?

Credo perché mio figlio è disabile. Mi piace studiare questa parte dell’esistenza. Mi è sempre piaciuto approfondire quello che non è normotopico.

Parla di parte sana e malata che convivono. La pandemia ce l’ha ricordato.

L’80% delle persone che conosco non è né ricco né sano. La malattia la sperimenti: arriverà sempre un tumore, un cancro, la morte. Mio zio è morto a 94 anni dopo essere stato alla prima del San Carlo e dopo aver mangiato una fetta di lasagna: va benissimo, ma non sempre va così. Sontag, che parla di quella convivenza, è una sacerdotessa: la parte sana e malata convivono sempre. In gioventù e in vecchiaia.

Le parole di Lucio sulla paura sembrano molto vicine a noi. Non tutti, però, sono riusciti ad attraversare la paura della malattia.

Io non penso che sia facile attraversarla. Attraversare la paura è il mio modo di vivere: quando una cosa mi fa paura me la metto davanti e tento di affrontarla per prima. Vado proprio incontro a quello che mi fa paura: me lo devo togliere dalle palle. Non riesco a stare immobile davanti alle cose. Piuttosto che pensare di avere paura, preferisco vivermela quella paura.

Qual è la lezione di Pompei? Cosa ci insegna davanti alle città ucraine bombardate e distrutte?

La lezione di Pompei testimonia che le cose hanno delle vite successive: quando pensi che siano finite, rinascono. Questa è la cosa incredibile. Il Colosseo è invecchiato, mentre Pompei rivive ogni volta. Quando l’hanno scoperta la gente era a terra, si abbracciava, sembrava viva. Come quando la vita scorre e, improvvisamente, irrompe una guerra. Prima c’erano città e case meravigliose, ora solo macerie. Pompei ci insegna che quelle cose ritorneranno a vivere, prima o poi, nonostante tutto.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.