La gestione dei sensi in “Vani d’Ombra”. Intervista a Simone Innocenti

by Michela Conoscitore

Le prigioni, spesso, ce le creiamo da soli. Prigioni mentali in cui ci rinchiudiamo perché sviluppiamo una visione distorta della realtà, della vita stessa, in rapporto anche agli altri. Poi, ci sono prigioni in cui ti relegano di forza, e uscirne è quasi impossibile.

Questo è quello che succede a Michele Maestri, protagonista del romanzo Vani d’Ombra (Voland, pp.160, 15€), firmato da Simone Innocenti. Primo romanzo per il giornalista del Corriere Fiorentino che, libero dalle gabbie del testo giornalistico, si è dedicato alla stesura di questa storia, che è stata tutt’altro che semplice: “Il romanzo è pura invenzione, puro jazz. Scrivo come giornalista da vent’anni, e c’è del metodo. Mentre, scrivere romanzi è divertente, non essendoci metodo, sperimenti, provi idee nuove. Scrivere romanzi è un piacere, anche se su questo c’ho lavorato per nove giorni, dodici ore al giorno. Se sbagli, invece, a scrivere un articolo, incappi in una smentita, che è peggio di una querela, o se hai fatto bene il tuo lavoro, capitano le fughe di notizie. È stato faticoso scrivere Vani d’Ombra, è stato ossessivo, questo racconto voleva fuoriuscire come storia da tramandare. La notte non dormivo.”

bonculture ha intervistato Simone Innocenti per farsi raccontare Vani d’Ombra:

Hai ambientato la storia di Michele Maestri in un paese di provincia, scrivi: “alla fine in paese si sa sempre tutto”. La vita di Michele poi prosegue dentro un armadio, in cui possiamo dirlo, ci rimane a vita. Perché il protagonista non riesce a liberarsi di questi contesti così claustrofobici?

I paesi sono tutti uguali, l’Italia è fatta di paesi, ecco perché a me piace leggere gli scrittori italiani. Gli americani cosa mi raccontano con le contee? Noi siamo la nazione dei comuni, dei quartieri, delle vie! Non vuol dire che gli americani non sono bravi, ma c’è di meglio dal mio punto di vista. Comunque alla fine Michele se ne libera, facendo un suo percorso. Ma se ti infilano in un armadio, e sei costretto ad assistere ad un qualcosa forzatamente, non si comprende se sei il carcerato o il carceriere perché la situazione in cui ti trovi è davvero folle.

Sono figlio ai miei genitori”, afferma il protagonista, ad un certo punto del romanzo, quasi a voler prendere le distanze da loro. Quanto incide il non-rapporto che ha con i genitori nella sua vita?

Andrebbe chiesto ai genitori di Michele. Abbiamo solo la storia di Michele. Nella mia testa, mentre scrivevo, ascoltavo solo quella voce, e quella voce mi diceva queste cose. E questa voce non aveva contraddittorio. Il contraddittorio, paradossalmente, è il lettore. E questo lo dico da lettore. Si dice che la lettura è lo sport più estremo, perché si legge in solitudine, e in solitudine ti fai un contradditorio. Michele sta monologando, e ti fermi a quel che vuole raccontare.

Il concetto di ‘giusta distanza’ torna spesso nelle pagine del romanzo. Ma la giusta distanza, nella vita di tutti, non solo in quella di Michele, può realmente chiarire o serve soltanto ad allontanarsi da qualcosa che non piace?

Prendo ad esempio il Puntinismo francese: se ci si avvicina tantissimo al quadro, si vedono dei punti. Se ci si allontana, man mano, inizi a vedere una porzione di colore. Se c’è la giusta distanza, vedi la figura intera, che ha un senso. Quindi, qual è la giusta distanza? Qualcuno potrebbe dire la figura intera, ma i quadri puntinisti sono stati creati dipingendoli da vicino. Il punto di vista è sempre una fregatura, perché è sempre sfalsato. A meno che non ci sia un dato oggettivo, come quando si scrive un articolo di cronaca nera e c’è un morto a terra. Lì il dato è fermo, diverso invece se questo morto viene spostato e cambia tutto. La giusta distanza c’è solo nel momento in cui la crei, ed è solo in quel momento.

Bisogna avere lo sguardo puro, allenato alla veridicità delle cose, per iniziare a vedere ciò che c’è da vedere”. La vista, anche per il lavoro che sceglierà di intraprendere il protagonista, è il senso preminente per eccellenza del romanzo. Forse, tra i cinque sensi, è anche quello che potremmo definire più scostante. Michele lo preferisce sempre in virtù della sua devianza?

Senz’altro. È fissato ad osservare il prossimo, in paese si sa sempre tutto perché si osserva. Ma per il romanzo a me interessa la vista del lettore. Nella mia testa è solo parola, poi, non è vista. Quel che per me era importante era il ritmo della storia, Noi siamo fatti di suono, mi interessava la musicalità del testo. Dante scrive i canti della Divina Commedia. Poi, è un concetto molto toscano, fiorentino quando si dice ‘canto del fuoco’, un posto deputato per raccontare storie. Il canto è la modalità con cui l’uomo si è espresso da sempre, “cantami, o Diva, del Pelide Achille…”

Che per le donne l’amore è come un cartone del latte: scade e va a male.” Sempre a proposito di devianza, si può dire che per Michele sono le donne la sua fissazione, una pulsione che non trova uno sblocco. Eppure, è attraverso loro che vorrebbe guarire. Puoi parlarmi di questa visione dicotomica della figura femminile, presente nel romanzo?

Io credo che le persone siano il frutto, o distante o vicino, del luogo in cui si nasce. Se per esempio, nasco nel deserto nel Sahara, avrò una visione diversa dei colori, dello spazio, del silenzio. Se nasci in Toscana, a Firenze, nasci tra le madonne. Una visione angelica che rappresenta la femminilità, ma il proibito è l’esatto opposto. Quel che vedi lo introietti, ma non sai quanto quelle cose influenzino la tua sensibilità. Quindi, le madonne diventano normali, avendo sempre fatto parte della tua realtà. Poi c’è da parlare del cambiamento oggettivo delle donne, ne scrive molto bene Antonio Moresco ne Il grido (SEM editore, 13,60): la specie donna è cambiata, e l’uomo è assolutamente impreparato a questa cosa. La specie maschile è storicamente messa lì, non si è mai fatto nulla. O fai le guerre, perché ci hanno strutturato per fare le guerre, oppure sei un fottuto bastardo inquieto. Anche le donne lo sono, se lo siamo tutti mi sta bene. Il problema è quando non lo sei, ma ti comporti come tale. Il maschio è più banale, e non gli importa nemmeno di esserlo.

Il bianco del latte, il bianco della spuma del mare, il bianco delle lenzuola pulite: il bianco è sinonimo di purezza. Michele Maestri è ossessionato dalla purezza. Perché per lui è così importante riottenerla?

Il bianco è un colore che contiene tutti i colori, non è detto che sia sinonimo di purezza. Posto che nel sesso ognuno fa quel che vuole, purché sia consenziente, ma spesso ce lo hanno presentato, soprattutto in passato, come pericoloso. Il sesso ha un limite, e puoi decidere se superarlo oppure no, in base a quel che ti hanno insegnato. Se tu lo superi, lo fai scientemente. Se lo superi, non sai dove vai: hic sunt leones. Si sorpassa da soli questa linea. Per Michele è diverso, perché è come se fosse stato preso per la collottola e lo avessero spinto oltre, quindi è come se fosse stata una violenza. E dopo una violenza si ha desiderio di regredire. Ma come si fa a tornare indietro? Michele si sdoppia ad un certo punto, e la confusione di ruoli e punti di vista aumenta.

Il tuo stile di scrittura, possiamo definirlo un flusso di coscienza, la storia che hai raccontato sono portatori sicuramente di innovazione e originalità nel panorama letterario nazionale. Secondo te, di cosa ha bisogno la narrativa italiana oggi? Hai indicato una direzione alternativa con Vani d’Ombra?

La narrativa italiana oggi ha bisogno di gente che sa leggere. Vedo molte persone, ed è ammirevole, che frequentano corsi di scrittura. Faccio un esempio: ho fatto karate, ci sono le cinture e se te non sei in grado rimani alla cintura blu e non vai a quella marrone. Poi agli incontri, chi è avanti ti spezza. Lo stesso è la lettura. È il caso del sistema editoriale. Bisogna saper leggere. Se io non ho mai letto autori importanti come Viani, Braibanti o Di Ruscio, e lavoro nell’editoria, e questa base mi manca, è come a karate. Le prendi e basta. Se non hai letto questi autori, è come parlare due lingue diverse. Non si può scrivere senza leggere. Se lo pratichi come ‘sport’, come dicevo prima, io lo vedo subito. Certo che la scrittura è importante, ma dovrebbero esserci anche le scuole di lettura. Non so se con Vani d’Ombra ho indicato una direzione alternativa. Sparigliare le carte nel sistema editoriale è difficile, c’è di tutto, però per me va bene così, l’ho scritto e l’ho pubblicato. Pensando a scrittori più grandi di me, come Kafka, che non sono stati pubblicati, e sono già contento.

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