«La maledizione di Rasputin», il romanzo «non premeditato» di Sergio Kraisky. Un viaggio negli orrori del Novecento per «mettere ordine nelle carte dei morti»

by Enrico Ciccarelli

Lunedì 6 novembre, nei mirabili spazi della Sala Borsa di Bologna, un luogo di pace, sapere e bellezza prospiciente la Fontana del Nettuno, è stato presentato, a poco meno di un anno dalla sua uscita, il romanzo «La maledizione di Rasputin» (Voland), di Sergio Kraisky, romano, sociologo e per oltre un trentennio docente di Italiano per stranieri. È il secondo romanzo di questo autore non molto prolifico, dalla scrittura tagliente e ironica, noto anche e soprattutto per i suoi racconti di genere (gialli e noir in particolare, ma anche fantascienza distopica), e quello che più di tutti sfugge a classificazioni ed etichette.

Con l’autore ne hanno parlato Sergio Reyes, consulente editoriale di vasta dottrina e amante del bon mot (non potremmo giurarlo, ma pensiamo che preferirebbe perdere un amico piuttosto che una battuta) e Luciano Granozzi, docente di Storia Contemporanea all’Università di Catania, che ha illustrato soprattutto gli scenari della mossa vicenda narrata dal romanzo. Sì, perché le trecento e passa pagine del romanzo di Kraisky sono intrise di fatti, di vicende, di accadimenti.

Il titolo, bello e suggestivo, non tragga in inganno, Grigorij Raspùtin, «lo zar degli zar», il carismatico e tenebroso mistico che esercitò una profondissima influenza su Nicola II e sua moglie Aleksandra, c’entra solo per la coincidenza del suo efferato assassinio con la nascita di Pavel Krotovskij, rampollo di un’agiata e aristocratica famiglia russa. Proprio della famiglia Krotovskij e della famiglia tedesca degli Schmidt parla Kraisky, vestendo i panni di Sasha, il figlio di Pavel, io narrante del lungo flashback che ci porta dall’Australia del Terzo Millennio alla Mosca del cupo e sanguinoso tramonto dei Romanov, passando per la Germania e la Romania, l’Italia, il Brasile e l’Afghanistan. Un itinerario irto di tragedie, persecuzioni, stupri e carestie, di esìli e di ritorni, di utopie e mitologie, slanci e disillusioni.

Siccome non c’è romanzo che non sia in qualche modo un’autobiografia, è abbastanza facile rinvenire nel tormentato rapporto fra Sasha e Pavel Krotovskij tracce di quello fra l’autore e suo padre, il grande slavista Giorgio Kraiski (la grafia del suo cognome secondo Wikipedia), fra le altre cose curatore della più rinomata fra le traduzioni di «Delitto e castigo» (e Dostoevskij, benché citato solo per un suo racconto minore, sembra una sorta di nume tutelare del romanzo). Così come appartiene all’album di famiglia la pervasiva presenza degli Ebrei e dell’Ebraismo. Da scrittore di vaglia, però, Kraisky ha l’accortezza di stemperare queste note in un più vasto retaggio. La necessità di «mettere ordine nelle carte dei morti», compito a cui Sasha è chiamato ad attendere su sollecitazione dei suoi figli, è in realtà affare non solo di individui, ma di popoli, di fedi, di civiltà (staremmo per dire di specie).

Fare i conti con il Novecento, con le sue fosche nobiltà e le sue feroci miserie, con i culti nefasti della Patria e della Razza, è il labirinto in cui l’Occidente e la sua coscienza sono tuttora intrappolati. E siccome «chi ignora il passato è condannato a riviverlo» (semicit.),  forse libri come «La maledizione di Rasputin» sono il tenue filo di Arianna da seguire per l’uscita. Kraisky ci accompagna su questo sentiero con una scrittura priva di qualsiasi compiacimento estetizzante, diretta, hemingwayana, che coinvolge e stimola, appassiona e diverte (una piccola fiamma di satanica ironia attraversa anche le pagine più cupe), lascia al lettore un affascinante pacchetto di suggestioni.

Suggestioni fra le quali mi ha colpito soprattutto questo andirivieni di esìli e ritorni: una sorta di interessante mix fra due miti fondativi della cultura occidentale: il nòstos, il ritorno, idea centrale dell’Odissea; e l’andare perenne, senza meta e senza requie, di cui è protagonista l’Ebreo Errante. Spesso, leggendo «La maledizione di Rasputin» si ha l’impressione che nelle sue pagine giochino a rimpiattino Ulisse e Malco (o Assuero, o Cataphilus: i nomi dell’Ebreo Errante sono numerosi come le leghe da lui percorse nel suo fatale andare).

Insomma, per dirla un po’ all’antica: un gran bel libro. Un romanzo forse «non premeditato», come dice Kraisky (che afferma, anche nell’intervista che ci ha rilasciato che il libro gli ha «preso la mano»), ma di sicuro ben riuscito. Presentato a Bologma per una iniziativa «nata dal basso», come si usa dire. Lo scrittore, Reyes e Granozzi hanno infatti raccolto l’invito dei gruppi di lettura «Sala Borsa» e «Quelli della Bi.Sca.» (che fa riferimento alla Biblioteca della Scandellara, nel capoluogo emiliano). L’organizzazione della presentazione, a cui hanno partecipato oltre un centinaio di lettori motivati e partecipi (come si è visto anche dalla qualità degli interventi dal pubblico), è stata curata da Fausto Ciccarelli e da Rosalia Ragusa, bibliotecaria di Sala Borsa.

Nel video l’intervista a Sergio Kraisky

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