La meravigliosa banalità del diventare grandi: “Mia madre è un’arma”, la prima raccolta poetica di Damiano e Fabio D’Innocenzo

by Annalisa Mentana

Mia madre è un’arma, che un giorno mio padre ha caricato e ha messo tra le mie mani, senza nemmeno chiedermi se la sapessi usare. Poi è andato via. Nessuna raccomandazione, nessun biglietto con le istruzioni lasciato da qualche parte, tra le sue carte.

Strano da parte sua. Strano per uno con l’abitudine di organizzare sempre tutto per tempo, con la mania del controllo sulla vita propria e su quelle degli altri. Per questo, tuttora faccio fatica a perdonarlo: quando io e mio fratello eravamo bambini aveva bandito dalla nostra casa le armi giocattolo. Non voleva che imparassimo come si fa a farsi male, a fare il male, con quali strumenti.

Per cui, quel giorno in cui mi ha affidato mia madre per poi voltarmi le spalle, ho stentato a riconoscerlo. Soltanto dopo ho capito che non fosse lui ad essere cambiato: ero io che in quel momento smettevo di essere una bambina. Ora potevo usarla anch’io un’arma, ma avrei dovuto imparare da sola come maneggiarla, a prendermene cura, a non combinare casini.

Ne “La terra dell’abbastanza”, il film d’esordio di Damiano e Fabio D’Innocenzo, c’è una scena in cui a Manolo, uno dei due ragazzi protagonisti, viene consegnata la pistola con cui avrebbe dovuto commettere il suo primo omicidio. L’ingresso nel mondo dei grandi passa attraverso quella pistola, di mano in mano. Gli si chiede: “Ma tu hai mai sparato?”. Ovvio che no, ma chi l’ha mai vista una pistola vera.

Manolo però con la faccia tirata di chi sta mentendo clamorosamente, risponde di sì, che problema c’è. Ma una pistola in mando ad un bambino non ci dovrebbe mai stare e questo anche mio padre lo sapeva bene. Quella notte Manolo inizia a giocarci con la pistola, scimmiottando le pose “dei film di sceriffi” davanti al lavello con dentro i piatti sporchi della cena, usando una ciabatta mezza sfondata come fondina. Quello che succede dopo è una catastrofe, nel senso etimologico e classico del termine: tutto crolla e sprofonda. E quel crollare è così banale e poco clamoroso, che nemmeno vale la pena farlo vedere. Perché ciò che conta non è il momento in sé del crollo, ma le macerie che esso provoca e di cui, a coloro che sopravvivono, si richiede di rimettere assieme i pezzi.

E schegge, tasselli, pezze ricucite alla buona o frammenti riparati con oro fuso, mi sembra raccolgano i fratelli D’Innocenzo in “Mia madre è un’arma” (La Nave di Teseo, 2019), la loro prima raccolta poetica.

Uguali ma diversi, mano nella mano – in un gesto d’intesa e di affidamento così commovente – Fabio e Damiano si fermano sulla lama di quella soglia che segna il discrimine tra l’infanzia e l’età adulta, tra l’essere figli e al contempo genitori dei propri genitori, tra l’essere figli ed il provare ad immaginarsi padri.

Su quella soglia, come all’indomani dell’ennesimo trasloco, si accumulano e passano in rassegna gli oggetti ordinari di una vita intera: lo scaldabagno, i panni da rammendare e da stirare, un posacenere, il quadro brutto fatto da un amico di papà, il divano di pelle che sbuffa quando ti ci lasci cadere sopra.

E tra gli oggetti, a tenere tutto insieme, aleggiano parole. Quelle che avresti voluto sentirti dire da tuo padre prima che se ne andasse ma che non ti ha voluto dire per non cadere nei sentimentalismi nemmeno in quel momento, quelle che tua madre non osa chiederti e che nemmeno tu le dici – tanto si finisce sempre col parlare di cosa hai mangiato a pranzo, quelle che restano spezzate perché intanto il telefono si è spento, scarico.

In effetti, più che parole, ci passano molti silenzi: di stanze vuote ma un tempo piene, di sveglie all’alba mentre tutti dormono ancora, di notti insonni, di quartieri con case e cose in fila, di giorni sospesi come questa primavera di purgatorio.

Quelle di “Mia madre è un’arma” sono poesie per ripensarci adulti e sopravvissuti, seduti su quella soglia che ci chiede di perdonare e di perdonarci per tutte le volte in cui siamo stati meschini, in cui ci siamo vergognati di dire “aiutami”, perché io non lo so proprio come si usa una pistola.

Soltanto quando avremo varcato del tutto quella soglia, allora forse saremo anche capaci di guardare alla nostra parte bambina e di raccontarla per quella cosa meravigliosamente banale che è stata.

Ma questa è già un’altra storia e, se non mi sbaglio, si chiama “Favolacce”.

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