«La montagna è la mia patria, ma è anche il mio rifugio». Paolo Cognetti e La felicità del lupo

by Felice Sblendorio

Non è più tempo di giovinezza per Paolo Cognetti, scrittore limpido e misurato, Premio Strega nel 2017 con il suo fortunato “Le otto montagne”. È tempo di dolcezza, di vita adulta, di seconde possibilità. Il suo ultimo romanzo, “La felicità del lupo” (Einaudi, 152 pagine, 18 euro), racconta di montagne e legami, del caso che li accomuna e dell’irrequietezza che caratterizza queste anime in cerca di una forma possibile di felicità.

Un romanzo breve, che torna all’essenzialità del racconto, per fermare un frammento di queste vite e lasciare al lettore il compito di riempire i tanti spazi vuoti, che una scrittura in sottrazione come quella di Cognetti non ha la necessità di riempire per dovere. bonculture ha intervistato Paolo Cognetti.

La montagna è nuovamente centrale nelle sue storie. Una montagna concreta, quasi ruvida.

È una montagna contemporanea, quotidiana, che parla di lavoro, di persone, di incontri. È una montagna che non si preoccupa dei sentimenti maggiori, ma è alla ricerca di una semplicità autentica.

Non ci sono i sentimenti maggiori, appunto, ma c’è il caso a regolare questi incontri. Ha concluso il suo personale romanzo di formazione?

Ho scritto tanto di gioventù, di adolescenza, dell’essere figli, dell’essere eternamente giovani e di persone che non hanno mai concluso realmente la loro formazione. Ora, credo che si sia esaurito questo mio interesse. La scrittura segue la vita: la mia, ora, ha un’altra età. Mi interessa raccontare la vita adulta con certe sue ferite, disillusioni, nuovi sentimenti e valori di un tempo dell’esistenza più disincantato ma non per questo arido.

Fausto, Silvia, Babette e Santorso sembrano essere uno stesso personaggio visto in momenti differenti dell’esistenza. Ognuno di loro incarna una fase precisa della scoperta della montagna?

Tre di questi personaggi potrebbero essere tre momenti di una vita sola. Silvia è una ragazza che arriva in montagna desiderosa di avventure. Per Fausto la montagna è una seconda possibilità, ha quarant’anni e ritorna in quei luoghi dell’infanzia per rimettersi in sesto dai colpi della vita. Quella di Babette, invece, è la fine di una storia d’amore lunga, intensa, ma oramai finita. A fare da spettatore a questi lupi che vanno e vengono c’è Santorso, l’albero, un uomo cresciuto e vissuto dove è caduto il suo seme. La felicità, qualunque cosa sia, lui non può far altro che cercarla lì, fra le sue montagne.

Quali rapporti stimola la prossimità umana della gente che abita la montagna?

Ci sono poche famiglie in questo racconto. Sono individui piuttosto solitari, timidi, scontrosi. Sono persone abbastanza a loro agio con la solitudine, ma anche desiderose di scoprire l’altro. Dopo la timidezza e la difficoltà, si cominciano a prendere cura dell’altro. Ci sono piccoli gesti che rappresentano tanto quando si coltiva la solitudine. Così nascono amicizie, improvvisi squarci nell’intimità di ognuno di loro. Anche l’amore fra Fausto e Silvia per me è un amore tenero, un’amicizia affettuosa. Questi personaggi, dopo la solitudine, scelgono il modo con cui farsi compagnia: si accolgono, si fanno rifugio a vicenda.

Che cos’è diventata, nel tempo, la sua solitudine?

Per me è stata una grande avventura. Dopo la città, la solitudine della montagna è stata un esperimento: non una fuga, ma un esperimento. Quando poi la solitudine la conosci, la studi, la impari, sai cosa ci può essere lì per te, sai dove può finire. La solitudine, nel tempo, è diventata un luogo in cui posso tornare quando e come desidero, ma non è più un luogo che mi attira come una volta; non è più una condizione che mi incuriosisce. Preferisco esplorare la condivisione con gli altri in questo tempo della mia vita.

Che cos’è diventata, invece, la montagna? La sua patria? Il suo rifugio?

Mi piace molto, dal punto di vista letterario, la parola patria. Per uno scrittore è necessaria una patria. Ci sono scrittori esuli, penso a Hemingway, che non hanno mai trovato davvero il loro posto nel mondo. Per me la montagna è un po’ questo: è il luogo della mia immaginazione, il luogo in cui nascono le storie, il luogo in cui non smetto di vederle nascere da quello che sento, osservo, da chi incontro. È un effetto che la città non produce. La montagna, quindi, è la mia patria, ma è anche il mio rifugio. Questo libro l’ho scritto durante il lockdown. Mettere assieme queste pagine, così piene di aria, di bosco e di torrenti, è stato proprio come costruirmi una casa essenziale, un mio rifugio intimo.

«Ma adesso era meglio di una volta, perché c’erano i suoi ricordi. È così che dev’essere un rifugio, pensò. Vale di più se custodisce qualcosa di tuo». La scrittura è il suo buon rifugio?

Da venticinque anni lo è, senz’altro. È una pratica quotidiana, un’abitudine. È il modo in cui penso, rifletto sulle cose, medito. Questo libro è più meditativo dell’altro: la narrazione è ondivaga, la scrittura è diventata un modo per alzarsi la mattina e concentrarsi un po’, ritornare in questo rifugio della mente e ritrovare un luogo che, nonostante tutto, ti può sempre accogliere.

La sua scrittura non è un rifugio solamente per lei, ma anche per i suoi lettori.

È una cosa bellissima, mi fa felice. A volte si dice che la letteratura deve fare male, deve disturbare. Sì, è giusto, ma deve disturbare chi sta bene, chi vive tranquillo, chi può sopportare il peso di una crisi che un buon libro provoca. Ci sono, però, anche gli afflitti, quelli che stanno male. A me non dispiace l’idea che un libro possa dare sollievo ed essere un luogo accogliente per qualcuno.

Lei racconta che c’è una differenza fra la montagna vissuta e quella vista da lontano.

La montagna vista da lontano o immaginata è un paradiso, mentre quella vissuta si fa carico della durezza della vita quotidiana, della distanza, dell’isolamento, del freddo. La montagna da lontano è romantica, ha generato l’alpinismo che nasce in città: guardando una montagna sognata, un’altrove, un regno d’avventura. A me, invece, interessa la montagna vista da vicino.

Perché la montagna è diventata un luogo politico?

Sono arrivati tanti giovani. Eravamo abituati a una montagna legata a concetti come tradizione, folklore, natura, ma negli ultimi anni è diventata un luogo di ricerca per tantissimi ragazzi che inseguono felicità, lavoro, realizzazione. Nel mio villaggio ci sono 15 persone. L’anno scorso ne sono arrivate altre 5, ovvero un aumento del 30% della popolazione. La montagna ha un gran bisogno di questa linfa, altrimenti muore anche lei.

La montagna riesce ad accogliere il futuro o è refrattaria al cambiamento?

Diventa accogliente con chi decide di investirci davvero. La montagna è abituata a essere usata e vedere la gente che viene e che va per la stagione turistica. È diffidente con la città che arriva, consuma e va via. Con chi si ferma, con chi mette radici, la montagna è molto accogliente e aperta perché sa che ha bisogno, molto bisogno di quella luce di futuro.

Anche Fausto, il suo protagonista, è un giovane che riparte dalla montagna per una seconda possibilità dopo una non brillante carriera da scrittore. Sembra, in qualche misura, la sua storia.

Questo passaggio è avvenuto verso i trent’anni. Oltre a essere ripartito personalmente, sono ripartito anche come scrittore. Avevo già pubblicato, avevo i miei lettori, ma con “Le otto montagne” ho trovato il mio Paese, le mie storie. È molto bello quando succede: sembra che lo scrittore trovi finalmente la sua lingua, metta a fuoco ciò che a lui interessa davvero. Rappresenta la maturità.

Con “Le otto montagne” ha vinto il Premio Strega. Si è sentito travolto da quel successo?

Sì, e l’equilibrio della mia vita si è un po’ spostato. Per i due anni successivi ho avuto una vita confusa, con pochi ricordi perché era tutto così veloce: troppi luoghi, troppe parole. È stato difficile recuperare quel mio equilibrio. L’ultimo periodo di lockdown, riducendo al minimo le relazioni e tutto quello che si rivela superfluo in una vita, è stato importante per ritrovare un mio centro.

Scrive che in montagna c’è sempre bisogno di qualcuno che cucini, non di qualcuno che scriva. Questa consapevolezza l’ha aiutata a gestire il successo, a ridimensionare l’ego?

Gli scrittori di solito non hanno grande esperienza con il lavoro manuale. Io sento molto la mancanza di questo perché il lavoro è una forma ricchissima di cultura, di conoscenza. Ogni lavoro, secondo me, dovrebbe essere raccontato da un bravo scrittore. Avremmo così, in letteratura, l’enciclopedia delle attività umane. Io ho fatto davvero il cuoco in un ristorante quando ero uno scrittore squattrinato e ho scoperto che ho un gran bisogno di manualità. Soffro per il mio lavoro solo intellettuale, perché noi siamo mente e corpo e il nostro corpo è avvilito, si ammala quando è davanti a un pc. È mortificato, vuole muoversi, imparare. In montagna lavoro il legno, pianto alberi, cucino e il corpo mi ringrazia. Cucinare, poi, è stata una lezione di modestia: non ero più lo scrittore premiato, ma un cuoco autodidatta che fa tanti errori e, forse, qualche cosa giusta.

Con gli anni la sua scrittura diventa sempre più essenziale. Nomina, non qualifica. Mostra, si incammina, ma non spiega. La prosa della montagna è simile al minimalismo della poesia?

Il mondo che io racconto è un mondo di sostantivi, non di aggettivi. È bene sapere il nome di ogni albero per raccontare. C’è anche una scrittura dell’abbondanza o della complessità, ma la mia via è quella della chiarezza, della semplicità. Mi sembra, poi, che la chiarezza della poesia sia quella più vicina al racconto della natura. La narrativa è uno strumento molto adatto alla città, mentre per raccontare un bosco serve la poesia. Che si avvicina alla scienza. La scienza, come la poesia e la chiarezza di una certa prosa, cerca l’esattezza, cerca un nome giusto piuttosto che un aggettivo forte.

Nel suo racconto la natura è indifferente alla presenza umana.

La natura è innocente e sempre giovane: le stagioni passano, ogni anno si rinnovano i cicli di nascita che non finiscono mai e noi umani invecchiamo. Mi sono reso conto che la terra ci guarda passare. Noi stiamo facendo qualche danno, ci estingueremo, lei ci metterà un po’ di tempo ma poi cancellerà le tracce del nostro passaggio. Questo mi consola. Noi abitiamo la terra, ma lei è più duratura e ci guarda passare come un albero che mette foglie e poi le perde.

Il romanzo si intitola: “La felicità del lupo”. Una felicità irrequieta.

È un titolo sull’irrequietezza. Il lupo, a partire dalla letteratura di Jack London, è stato pensato come immagine dell’uomo. Il lupo si sposta, è irrequieto nella ricerca di una sua felicità, di un’illuminazione. È una felicità errabonda, che si aggira per i boschi, a caccia di istinti.

Per lei non è ancora il tempo di una felicità dell’albero, di una felicità del restare?

Il prossimo libro potrebbe raccontare la felicità dell’albero. È bella l’idea di restare, di provare a mettere radici, di costruire qualcosa dove sei. La felicità dell’albero ci dice che non è necessario partire per essere sereni. Una felicità più altruista, non solo per te, ma anche per chi hai attorno.

Non è più tempo di cominciare, di andare, «di eccitazioni da prima volta», allora.

Si ritorna a questa cosa della formazione che si esaurisce, per fortuna. Ci sono un sacco di cose da scoprire nella vita adulta. Ogni età ha le sue eccitazioni, i suoi inizi. L’emozione della prima volta non si esaurisce mai. Anche se si cresce, anche si invecchia.

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