La peste si avvicina nel romanzo di Loredana Lipperini: «Il colpevole ci rende puri e, nell’illusione, salvi».

by Felice Sblendorio

Quasi sempre le tragedie si annidano nei segni, nei sogni, nelle premonizioni. È così anche ne “La notte si avvicina” (Bompiani, 352 pagine, 18 euro), l’ultimo conturbante romanzo di Loredana Lipperini, scrittrice, giornalista, voce inconfondibile di “Fahrenheit” su Rai Radio 3.

Con una scrittura tesa e drammatica, capace di valorizzare una trama stratificata in una struttura degna della migliore tradizione letteraria gotica, Loredana Lipperini dona al lettore una storia complessa casualmente collegata alle vicende del presente ma, in realtà, interamente pervasa dalle suggestioni fantastiche del passato.

Anche in questo romanzo le tragedie, per istinto, sono magnetiche: pretendono per sé tutto il tempo e l’umanità possibile. Vallescura, un paesino delle Marche, è il corpo malato di questa storia che, in una sorta di dolore prolungato, dopo le rovine del terremoto si ammala. Prima il paese, poi le persone: arriva sempre qualcosa che muta e cambia i corpi. È il 2008, l’anno della grande crisi economica e in questo piccolo centro, sintesi e simbolo delle tante realtà introflesse del nostro Paese, è arrivata la febbre.

Se porta con sé dei sintomi tremendi, la febbre anticipa e annuncia la peste. Tratteggiando un romanzo universale e particolare, Lipperini – nell’anno della grande pandemia – ragiona sull’evento distruttivo più sociale e antropologico della storia. Nella peste, infatti, tutto si trasforma. Neppure il tempo esiste più nel contagio: resiste solo il male, la colpa, la paura dell’altro, la morte.

In una narrazione che migliora e completa pagina dopo pagina la sua drammatica tensione narrativa, l’autrice spiega attraverso le vite e i comportamenti delle sue protagoniste (quasi tutte donne, non una scelta casuale) la radice profonda del maligno.

La peste, che percepiamo come presenza ingombrante in questo preciso frammento storico, per Lipperini si trasforma in una metafora stratificata capace di comprendere tematiche diverse come una malattia o la paura per una maternità problematica. Nel mezzo, spaventosamente, ci siamo solo noi: con la paura dell’altro, la presunzione sull’altro, la capacità di chiuderci a chi non riconosciamo integro, finito. bonculture ha intervistato Loredana Lipperini.

La peste in questo libro è una metafora potente per raccontare un contagio antico. Non stupisce più di tanto che abbia cominciato a immaginare un libro del genere nel 2016. Scrive che «è sempre dal passato che arrivano i mostri». Oggi, il covid-19 sembra ci abbia sorpresi: ma una certa infezione delle nostre anime non era già un segnale?

Con il senno di poi, naturalmente sì. Ma è impossibile prevederlo prima. Non credo che davvero la letteratura abbia capacità profetiche. Ci piace pensare, per esempio, che la fantascienza abbia previsto il futuro: per meglio dire, ci piace pensarlo in determinati casi. Leggere nell’immediato dopoguerra “The World Set Free” dove Wells previde già nel 1914 l’invenzione della bomba atomica non rassicurava, così come molti di noi, con l’irredimibile fascinazione che la paura ci riserva anche in circostanze realmente terrorizzanti, hanno ripreso in mano “L’ombra dello scorpione” di Stephen King, quasi consolandoci per la devastazione di Captain Trips nei giorni della reclusione da coronavirus, o abbiamo creduto che davvero, nel 1981, Dean Koontz abbia previsto la pandemia in “Abisso”, dove il virus si chiamava Wuhan 400, oppure che Steven Soderbergh abbia avuto doti sovrannaturali nel girare il film “Contagion” nel 2011. Non funziona così, o dovrebbe essere un medium anche David Quammen con il suo saggio “Spillover”. Semplicemente, scrittori e divulgatori conoscevano le possibilità che poi si sono sviluppate. È una vecchia storia, questa. Carlo Fruttero (e altri con lui) ha ripetuto più volte che la fantascienza “non è profezia, ma una proiezione appassionata dell’oggi su di un avvenire mitico: e per questo aspetto partecipa della letteratura e della poesia”.

L’epidemia sprigiona il tratto animalesco del nostro modo di essere umani. La comunità che racconta è alla ricerca dell’untore, del colpevole, del capro espiatorio. La ricerca di un nemico è un modo per ricordarci che siamo ancora vivi?

Purtroppo, la ricerca di un nemico è inevitabile: serve a rassicurarci sul fatto che ciò che di eccezionale avviene non è colpa nostra, e che non siamo noi ad aver suscitato l’ira di un dio o un cataclisma sanitario e ambientale. È come se, negli ultimi trent’anni, avessimo tutti guardato da lontano guerre che non ci toccavano. È avvenuto davvero, peraltro: ma la nostra commozione è sempre stata volatile. Il colpevole ci rende puri e, nell’illusione, salvi.

La peste, scrive, è sempre dentro di noi. Cosa diventiamo dopo questa contaminazione?

Questo è difficile capirlo ora. Di certo, non saremo uguali a quelli di prima. Mi colpiva, all’inizio dell’estate, la facilità con cui la pandemia veniva espulsa dai discorsi, pubblici e privati, come se non fosse stato e fosse qualcosa di impensabile e ancora di difficilmente narrabile. Lo vedremo, nel tempo.

La struttura del libro è interessante: demolisce la linearità temporale dei fatti descrivendo il tempo precedente e successivo alla peste. Nel mentre, appunto, la notte si avvicina. Una struttura del genere rende più immediata l’idea che all’origine di un male contagioso non ci sia un solo inizio ma una molteplicità di inizi?

Non c’è mai una sola causa. Nel romanzo, provo a intrecciare le cause effettive, i fatti se vogliamo, con uno stato d’animo collettivo che a sua volta si deve a molti fattori, piccoli e grandi, e che nel suo complesso ha portato a quel disinteresse, a quel chiuderci nel nostro piccolissimo, che secondo gli antichi cronisti favoriva i flagelli.

La morte, che tentiamo di sfidare, nel contagio ritrova la sua forza e la sua essenza primitiva. In epigrafe cita Ritsos: «I morti sentono prima del rumore». La scelta di far parlare un morto non è casuale?

Mi serviva un fantasma. I morti si muovono in un tempo fermo, possono guardare indietro e avanti e comprendere le cause, e provare pietà anche per chi commette il male. Credo, inoltre, che sia necessario raccontare la morte: la letteratura non realista, o fantastica, che è quella che leggo e scrivo, lo ha assunto come compito primario.

Indaga molto l’incertezza che separa il bene dal male, il confine sottilissimo che distingue le vittime dai carnefici. Sembra che tutti i suoi personaggi sentano su di loro sia l’innocenza che la colpa. I buoni, al centro del male, cosa diventano?

Oscillano, come ognuno di noi. Narrare che siamo fatti, tutti, di bene e di male, è un’altra delle mie ossessioni letterarie. È, banalmente, etica. Ma ancora una volta appartiene al fantastico: Il signore degli anelli non sarebbe il capolavoro che è se Frodo, sul Monte Fato, non cedesse al potere dell’Unico Anello.

Saretta, un personaggio irresistibile, coltiva l’illusione di poter proteggere e guarire (come un corpo) il paese di Vallescura dalla radice maligna che porta con sé l’estraneo. Le comunità e le persone, quando si chiudono agli altri, diventano deboli, indifese?

Forse non indifese, ma sicuramente fragili. È quanto ci accade da diverso tempo. Una nazione che si chiude agli stranieri, famiglie che si chiudono nel loro recinto. Semplicemente, si appassisce.

In un romanzo così stratificato ritorna spesso un tema a lei molto caro: la maternità. In questo caso una maternità strappata, problematica, contrastata: a Maria un gruppo di donne ha sottratto i figli. La ferocia, in questo caso, è femmina?

È del gruppo, semmai. Ed è qualcosa che racconto da anni, anche nei saggi sul femminile. Neanche la maternità è immune da una società ferocemente competitiva, dove occorre essere i migliori in ogni campo anche a costo di distruggere gli altri. Avviene, purtroppo, anche nel materno.

Maria dice: «Quando ti accusano di una cosa del genere stai talmente male che finisci per credere anche tu che sei una cattiva madre». Di cattive madri, per molti, è pieno il mondo. La caccia alle streghe non è mai finita?

Temo di no.

Le grandi epidemie hanno sempre una fine: la speranza, invece, resiste?

La speranza deve resistere, perché è quanto di più importante abbiamo. Specie se unita alla fiducia nelle generazioni delle ragazze e dei ragazzi.

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