«La psicosi, senza poesia, è buio, caos, oscurità»: la poetica città dei matti di Paolo Milone

by Felice Sblendorio

È una toccante preghiera “L’arte di legare le persone” (Einaudi, 200 pagine, 18.50 euro) l’esordio letterario dello psichiatra Paolo Milone. In questi versi densi di compassione, dolore e ironia, questo appassionato psichiatra racconta la sua vita nel reparto 77: psichiatria d’urgenza.

Pagine libere, sfuggenti a ogni definizione, in cui Milone condivide il dolore degli altri, per quarant’anni maneggiato e indagato. Ci sono le storie di molte vite per spiegare l’urgenza di chi salva qualcuno a un passo prima dal buio. L’abisso, quel buco nero in cui si confondono i viventi e folli, è uno spettro comune e alieno. Comune a tutti, ma differente per ciascuno. Così, Milone non tenta di normalizzare le diversità, ma si spinge oltre in un racconto quasi mitologico, a tratti lirico, in quell’odissea dei viventi che scolora i confini fra chi cura e chi è curato, chi è sano e chi malato, chi resiste e chi soccombe.

Paolo Milone, genovese, 66 anni, più di 40 trascorsi in psichiatria d’urgenza. Come mai?

Io ho un piccolo segreto, che credevo di tenere per me: a 14 anni ho avuto una crisi depressiva vera, lunga, pesante. Ho capito diverse cose e, fortunatamente, ne sono uscito bene. Mi sono laureato e ho scelto di specializzarmi in psichiatria, nonostante mi piacesse molto medicina interna. Durante quella crisi depressiva avevo letto tantissimo: cercavo nei libri psichiatrici una risposta perchè io stesso, oltre agli adulti, non capivo quello che avevo. Ho pensato di riutilizzare quell’interesse, quelle conoscenze: così sono diventato uno psichiatra. Ogni psichiatra ha una storia personale: non si sceglie questo mestiere tirando a sorte. Ognuno ha un suo percorso: il mio mi ha fatto capire alcune cose fondamentali che altri psichiatri ci mettono tempo per comprenderle.

Quali?

Che le malattie mentali esistono, che sono dolorose, che è difficile comunicare con chi non ha vissuto quelle stesse esperienze, che la causa delle malattie mentali è interna. Io mi rendevo perfettamente conto che quello che succedeva oltre me non interferiva con il mio malessere: quello che esisteva oltre me non contava nulla.

In questo libro ha riunito frammenti, appunti di una vita da psichiatra: quando ha sentito l’urgenza del racconto?

Come persona mi sono giocato la vita nel tentativo di capire e di avere un rapporto con i miei pazienti. Deluso dall’approccio tecnico-scientifico, ho cercato un approccio narrativo. Tutte le malattie mentali, che sono specifiche e tutte diverse l’una dall’altra, hanno un tratto comune: quello di essere impoetiche. Non hanno un calore, una storia, una narrazione. Così ho cercato delle storie per comprende meglio. Le storie, in psichiatria, sono molto rare. Dato che la parola scientifica non riesce a chiarire, la poesia può tentare di dare un nome a questa massa dura. Il lavoro della poesia, per me, è come dissodare un terreno incolto: se non entra la vanga della poesia, della fantasia, delle storie, allora non c’è possibilità di comprensione. La psicosi, senza poesia, è buio, caos, oscurità.

Scrive che la parola è una paglia, e che se un problema è definibile con le parole, non è un problema psichico. Le parole a cosa servono?

Intanto consolano. Poi chiariscono. Le parole nella poesia hanno più significati, ma non generano confusione. La poesia è un modo di creazione della mente più evoluto. La psicosi toglie, la poesia dà. La poesia fa conoscere, la psicosi rende tutto inconoscibile. La psicosi è come un mare: se la parola scientifica si ferma davanti alle onde, la poesia ti fa volare su quelle onde, aiutandoti a scorgere meglio l’orizzonte.

Il confine fra la persona e la malattia è un confine netto?

È confine che esiste. Le malattie mentali, quando arrivano, sono subdole. I pazienti, molto spesso, non se ne accorgono. Per gli psichiatri è difficile distinguere, ma c’è sempre una regola: la persona va liberata dalla malattia. In psichiatria d’urgenza non si può essere mai astensionisti. Non si può mai dire: è fatto così. No: dire che non ha senso, che una persona è malata e non ha importanza curarla, è una mostruosità. La psichiatria funziona. Noi aiutiamo a far uscire la persona dall’involucro della malattia. Bisogna sempre farlo: bisogna sempre tirare fuori le persone dall’incubo della loro malattia.

Salvarle dalla malattia e riunificare la persona. «Far di pezzi, uno?».

Il paziente quasi sempre è spezzato. Se un paziente ha una crisi psicotica acuta non si riconosce, non si vede più. Si depersonalizza dal suo corpo, dalla realtà: fa confusione fra se stesso e l’esterno. Si può tentare di raccogliere questi pezzi nel tentativo di riunirli. Questa è una delle fondamentali ragioni della psichiatria. Poi ci sono le medicine, la contenzione. La contenzione non è una bella cosa, ma ci sono anche aspetti positivi. La psichiatria d’urgenza se rinuncia alla contenzione perde la sua anima.

Afferma: «Non è cattivo chi lega, legare è faticoso. È cattivo chi abbandona il paziente». Quando è indispensabile legare?

Si lega in casi estremi, quando il paziente non può essere dimesso, oppure è confuso, agitato. Si lega perchè, come nel mio ospedale, fuori semmai c’è una strada, ci sono le macchine. Il mio ospedale è a Genova, città tutta in salita fra le colline e il mare. Quell’ospedale è costruito su vecchi muraglioni che attraversano la città. A 30 metri c’era un muraglione altissimo. Non si può mai lasciare libera una persona confusa …

Eleva questa pratica a un’arte: quella di legare le persone. È arte nobile se è necessaria?

Esatto. È un atto medico brutto, ma necessario. È nobile quando si adopera per il bene del paziente. Direi che è sacro in certi casi, ma esagererei. Io quando legavo le persone ero contento: il paziente era salvo. Era ancora in vita.

Questa è una storia fatta anche di corpi. Il corpo che cos’è: un confine, una frontiera, un muro?

È qualcosa di fondamentale. La psichiatria corrisponde a uno stato mentale che è pre-verbale, forse a-verbale. Siamo prima della parola, oppure dopo una disorganizzazione della mente in cui le parole non hanno più significato. Il paziente comunica con il corpo: quando spacca tutto è già una forma comunicativa. Il paziente non è solo corpo, ma in quel momento è soprattutto un corpo. Volendosi togliere di dosso la vergogna di legare, la psichiatria è diventata una scienza nobile. Infatti, ha eliminato il corpo. A me non piace una psichiatria bon-ton. Lo psichiatra non può stare lontano dal paziente: lo psichiatra si deve sporcare le mani e la coscienza.

È quasi una danza, una lotta fisica…

È anche una lotta, ma l’immagine più esatta è quella dell’evacuazione. Immaginate un pompiere: se c’è una casa che brucia il pompiere entra e, anche con la forza, deve portare in salvo le persone intrappolate in quella casa. Il suo compito è gettare le persone fuori il prima possibile. Non è importante in che modo, con quale forza. Se c’è un’emergenza non c’è tempo da perdere. Non capisco perchè uno psichiatra, nel legare, sia considerato meno affidabile di un pompiere. Se non hai mai avuto un corpo a corpo con nessun paziente significa che o sei stato fortunato oppure non ti sei voluto sporcare le mani. 

Che cos’era la compassione, nel reparto 77?

Era un sentimento che si divideva con tutti. I reparti di solito fanno paura: nel mio c’era confusione, ma si respirava un’atmosfera di gruppo. Quando qualcuno veniva dimesso, dopo mesi ritornava per ringraziarci.

La solitudine è una fragilità che complica le cose?

Si lotta contro la solitudine. Chi fa questo mestiere combatte una lotta per tirare la gente fuori dalla solitudine. Il mio metodo è stato sempre quello di trovare il bello dove non c’era. Le persone che soffrono di malattie mentali sembrano tristi, ma hanno dei grandi problemi di comunicazione. Nella depersonalizzazione non si capisce nemmeno se quello si pensa è un proprio pensiero. La solitudine è totale.

Perchè afferma che la tristezza è uno stato mentale eversivo?

Perchè va contro lo spirito del nostro secolo: il consumismo. Se sei depresso difficilmente consumi. La gioia costruita della società dei consumi non è adatta alla depressione. Il consumismo non è neanche interessato ai morti, semplicemente perchè non consumano.

Cosa ha compreso, della vita, guardando l’abisso negli occhi degli altri?

Ho compreso la finitudine, il limite. Tutto ha un limite, tutto è temporaneo. Bisogna accettare i propri limiti, compreso quello della morte. L’unica consolazione è la poesia.

«Ognuno vive nella nebbia più o meno fitta», scrive. Ci difendiamo dalla malattia quando riusciamo a padroneggiare una nostra geografia del buio?

Ognuno ha bisogno di costruire la sua geografia del buio: è indispensabile. Tutti custodiamo un buio fitto. Bisogna imparare a tollerare il proprio, ma anche quello degli altri. Bisogna essere benevoli.

Leggendo il suo libro ho pensato a una canzone di Francesco Bianconi, “L’abisso”: «Conosco bene gli uomini, racconto i loro demoni, ma non riesco a vivere coi miei».Lei, tentando di chiudere quel reparto a chiave, è riuscito a vivere con i suoi?

No, bisogna sudarsela ogni giorno. Dubito che ci possa essere una convivenza pacifica con i propri demoni. Si resta sempre su un piano inclinato. In bilico, nell’incertezza di quel piano inclinato.

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