“La scatola di latta”, un mondo senza parole nella routine pestilenziale della città di Ics

by Michela Conoscitore

Vi siete mai chiesti come sarebbe la vita senza le parole? Non riuscire ad articolare frasi di senso compiuto, non poter esprimere esigenze o sentimenti. Il mondo, per come lo conosciamo, si bloccherebbe. Tutto cesserebbe d’esistere. Su questa ‘visione apocalittica’, che altro non è che una metafora di quel che, culturalmente, sta accadendo al giorno d’oggi, ha scritto un delizioso libricino Paolo Donini, La scatola di latta (Voland, 112 pp., 13 €).

La storia che ricorda molto, per stile, i libri sognanti e ironici di Italo Calvino, ha il suo protagonista in P, un poeta senza età e senza storia, che vive nel piccolo paese di Ics, immerso tra le colline e bagnato dal torrente Virgola. Nella cittadina, lontana dai centri nevralgici della Repubblica, da sempre si conduce una vita tranquilla, ordinaria e felicemente noiosa. Pochi eventi hanno scosso la routine di Ics, e i suoi abitanti sonnacchiosi ci tengono a preservarla quella quiete. P osserva da lontano i suoi concittadini, immerso com’è nella sua vita di artista. Vive di rendita, grazie ad avi danarosi, e trascorre la sua vita a scrivere poesie, dilettarsi con la lettura e buon cibo, accompagnandoli con calici di vino francese. Ad un tratto, tra gli abitanti di Ics inizia a diffondersi uno sconosciuto ‘morbo’: terminare frasi o discorsi diventa un’ardua impresa, le parole stanno scomparendo.

Nessuno sa individuarne le cause, e sembra non esista alcuna cura. In mancanza delle parole, nella cittadina tutti sono travolti da inutili segni di interpunzione che creano nebbia e confusione. In paese, solo P è immune a questa strana malattia: potrà quindi aiutare i suoi concittadini a recuperare il linguaggio?

In fondo tutto il mistero dell’esistenza, se osservato nei dettagli e da una posizione esterna e, diciamo, panoramica come, ad esempio, la solitudine di un’artista, è costituito dall’incessante combinarsi e poi disgiungersi e ricombinarsi in ogni istante di singole vite separate non diversamente da quanto accade alle lettere sopra a un foglio.

La razzia di parole da cui sono affette le menti dei cittadini di Ics, altro non è per Paolo Donini che l’impoverimento, culturale e lessicale, che sta sperimentando la società contemporanea. La città è, anche se a scala ridotta, una rappresentazione precisa ed essenziale del mondo di oggi: assorbito dal linguaggio veloce e impoverito che molti adoperano, quotidianamente. Non c’è spazio per l’eloquenza, una conoscenza dell’universo alfabetico che proviene dal sapere, non accademico ma, affamato di cultura.

La soluzione a questa ‘peste verbale’, un vero e proprio mistero, giunge imprevista e a sorpresa a fine racconto: le parole hanno scelto qualcuno che le comprendesse e le amasse, sfuggendo a menti asfittiche e aride. Quel che Donini vuole celebrare con il suo piccolo grande racconto è il potere e la magia che la lettura esercita sulle nostre menti. I libri altro non sono che i contenitori delle parole, dei termini che ogni giorno pronunciamo, a volte stancamente e inconsapevolmente.

Il libro, la forma-libro, come amava definirla, era per lui come un ciborio per l’ostia, tetto custode delle sacre parole, laiche si intende, essendo queste custodi dell’essere.

Una concezione così reverenziale dell’oggetto libro, da parte del protagonista P, fa intendere quel che lo scrittore vuole trasmettere con questa favola: leggere, assaporare eloqui come fossero buon cibo o un bicchiere di vino, non solo arricchisce ma è tra i piaceri della vita più sopraffini e, al tempo stesso, trascurati. Se anche nella città dove vivete si diffondesse ‘la peste di Ics’, diventereste esseri muti e sordi alla bellezza della vita. Mentre le parole, che siano organizzate in prosa o poesia, possono far fiorire una primavera in pieno inverno, semplicemente apprezzando la possibilità che danno agli esseri umani di esprimersi.

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