La tormentata (e dolorosa) vita di Dalida nel racconto di Tony di Corcia: «L’amore del pubblico non ti accompagna a casa».

by Felice Sblendorio

La vita può essere insopportabile: lo sapeva bene Dalida, al secolo Iolanda Cristina Gigliotti, cantante, icona tragica, diva internazionale che ha stregato il mondo con il suo talento e il suo male di vivere. Il successo, però, anche dopo 85 milioni di dischi venduti, non è tutto: può essere una conquista effimera, superficiale, insapore senza la vita, il calore di un amato, lo sguardo di un figlio che ti dona nuovi occhi con cui guardare al mondo.

A più di trent’anni dal suo suicidio, per ricordare questa luminosissima vedova nera arriva domani nelle librerie “Dalida. Andarsene sognando” (Edizioni Clichy, 128 pagine, 7.90 euro), un libretto prezioso curato da Tony di Corcia, scrittore, giornalista, originale e colto biografo di personalità eclettiche come Versace, Armani, Valentino, Burberry, Alda Merini e Andrea Pazienza. In poche e compatte pagine, di Corcia fa parlare Dalida attraverso un’intensa prima persona capace di riassumere una vita e spiegare, in un tentativo arduo, l’inspiegabile e insopportabile dolore di vivere. Fra immagini e parole, il giornalista foggiano intrappola bene l’essenza di quella bambola suicida e l’impronta di una vita intera in una biografia che è un gioiello: piccolo, ma doppiamente intenso. bonculture ha intervistato Tony di Corcia.

Andarsene Sognando” è quasi un rito, una preghiera d’arte, un ritrovo di anime. Perché Dalida?

Perché da più di vent’anni le riservo un culto che rasenta la devozione religiosa. È da quando ho iniziato a pubblicare libri che desidero dedicarne uno a lei, e sono grato a Edizioni Clichy per avermelo permesso. Dalida è un personaggio straordinario, capace di alternare ombra e luce, male di vivere e fame d’amore, fascino nero e dolcissimo tormento: è perfetta per la letteratura.

Quando entra nella tua vita questa icona tragica?

All’età di 12 anni, ma per pochi secondi: ricordo ancora Paolo Frajese che annuncia la sua morte al Tg1. Chiesi a mia madre chi fosse, e lei mi disse che era una cantante francese e che aveva avuto una storia d’amore con Luigi Tenco: in poche parole, aveva sintetizzato lo spazio decisamente angusto in cui noi italiani l’abbiamo relegata. Poi, alla fine degli anni ‘90, Paolo Limiti le ha dedicato alcune puntate della fortunata trasmissione che conduceva su Rai Due: fu una folgorazione. Mi sono innamorato di lei e ho percepito che quella voce calda e profonda veicolava altri messaggi più sotterranei. Pochi giorni dopo ero a Parigi, e ne ho approfittato per saccheggiare un negozio di dischi sugli Champs Elysées: in pochi minuti avevo acquistato una consistente parte della sua discografia. Ho cominciato ad ascoltarla e ad appassionarmi alla sua vita, scoprendo i tormenti che l’hanno accompagnata per tutta la sua esistenza. Si trattava di un momento piuttosto delicato della mia, di vita, di uno snodo fondamentale in cui stavo diventando ciò che penso di essere ancora oggi, e questo passaggio non era facile. Con la sua musica, è diventata l’icona di quel momento di passaggio. Attraverso di lei, ho imparato a dare un nome a certi stati d’animo, a certe zone buie, a indagarle, a dialogarci, a conviverci. Non mi sembra poco.

La voce intima e disarmata che leggiamo è proprio quella di Iolanda Cristina Gigliotti, per tutti Dalida. Perché hai scelto l’intimità della prima persona?

Perché le biografie, che potremmo definire con dei versi di Majakovskij “il laboratorio delle resurrezioni umane”, servono principalmente a ridare voce a qualcuno che non c’è più. La scelta della prima persona è giunta in maniera assolutamente spontanea. Ero talmente abitato dalla mia protagonista che mettermi in ascolto e farmi tramite di un suo probabile discorso mi è venuto naturale. Mi piaceva l’idea che fosse lei a puntare lo sguardo su chi legge, che lo sorprendesse e lo affascinasse con le sue memorie: le origini, il successo, i lutti, gli amori, le solitudini.

Nelle sue canzoni c’era già tutto. Il suo repertorio è stata la sua prima autobiografia? 

La prima, ma soprattutto la più attendibile. Pochi artisti hanno saputo far coincidere il loro vissuto e la loro opera, soprattutto nella musica leggera. Credo che questo sia stato possibile grazie alla sua fortissima personalità, che le permetteva di influenzare gli autori che scrivevano per lei, e a un intuito eccezionale: Yolanda conosceva così bene il suo doppio da scegliere il repertorio più giusto per sottolineare l’identità musicale di Dalida.

La sua capacità era quella di incarnare il tormento, di dare anima al peso del mondo.

Sono sempre stato affascinato dai personaggi capaci di forti contrasti. Lei sapeva essere luminosa, sfavillante, gioiosa, quanto malinconica, profonda e grave come la sua splendida voce. Non è un caso se è diventata la beniamina degli animi più sensibili, e in una maniera così forte: lo confermano gli sguardi grati e commossi delle persone che trovo intorno alla sua tomba, quando vado a trovarla al Cimitero di Montmartre.

Racconti la morte in attesa di quel tempo sognato tutto per sé. L’ha meritata quell’eterna domenica?

Sì, senza ombra di dubbio. Credo che fosse ormai esausta di convivere con quella finzione che sintetizza benissimo nella sua canzone “Je suis malade” quando dice, in sostanza, di essere stanca di sembrare felice quando è davanti agli altri. Ha cercato la pace che, evidentemente, non riusciva più a trovare. Era in fuga da fantasmi, rimpianti, delusioni.

L’essere artista non l’ha salvata? Serve la persona a pacificare l’artista, la vita a compensare l’arte?

Temo che lei sperasse nell’esatto contrario: che i successi dell’artista compensassero le delusioni della donna, e che l’arte pacificasse la sua vita. Ma come Almodovar fa dire a Huma Rojo in “Tutto su mia madre”, il successo non ha né sapore né odore, e quando ti ci abitui è come se non esistesse. Si è resa conto che persino l’abbraccio di un pubblico adorante, caloroso, fedelissimo come quello che ancora oggi la ama incondizionatamente non è sufficiente a riscaldare il freddo di una stanza buia e di un letto vuoto.

Un vuoto incolmabile?

Il suo cuore, ormai, era simile a un cimitero: troppi lutti l’avevano scossa e svuotata. Amori mal corrisposti, la maternità negata, l’equivoco che quella sulla scena fosse Yolanda e che quella che si muoveva a riflettori spenti fosse Dalida. L’amore del pubblico, anche il più sincero e fragoroso, non ti accompagna a casa: lì, come cantava lei in “Lucas”, non era altro che una donna sola.

«Il viaggio più meraviglioso non è quello che l’uomo ha fatto per andare sulla luna, ma il viaggio nella propria interiorità», disse. La capacità di interrogarsi, di specchiarsi dentro ha alimentato quel suo tormento?

Per lei potrebbero valere le parole che Heidegger riservava ai poeti quando diceva che sono esseri arrischianti e, per questo, erano i custodi della soglia. Dalida ha voluto indagare il mistero dell’esistenza umana perché cercava risposte a un dissidio interiore, e ha trasferito nella musica tutto ciò che rinveniva in questi viaggi nell’anima: quell’esperienza le donava parole buone per una nuova canzone, e il pathos giusto per interpretarla aggiungendo una cifra personale, che le permetteva di marchiare a fuoco ogni brano facendolo diventare suo.

L’amore è stato il suo abisso?

Si, e vi si è tuffata ogni volta. Faceva tutto sul serio: dalle prove per un concerto al modo in cui si lanciava in una storia d’amore.

Cantava: «Avec le temps, va, tout s’en va». Che cosa non è scomparso di quella luminosa vedova nera?

Questo ossimoro è meraviglioso! Te lo rubo e me lo giocherò alla prima occasione utile. Resta la sua verità di donna e di artista, quel modo di donarsi completamente al pubblico che implica anche il non nascondergli nulla, il saper oscillare tra la malinconia e la gioia. L’intensità, lo charme, la fragilità. E la sua musica, che ha alternato molte canzoni commerciali e autentici capolavori tagliati su misura per lei. La sua vita e la sua arte formano un unicum potentissimo, fatale: è impossibile restarle indifferenti, una volta entrati in contatto con la sua magia.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.