La vita di chi resta di Matteo Bianchi, una testimonianza al mondo a cuore aperto

by Giorgia Ruggiero

Matteo Bianchi mastica il suo intimo dolore per anni e anni, fino a quando – dopo molto in cui espia la sofferenza da essere umano – si accorge che il suo io scrittore ha un modo più terapeutico, più completo per fare in modo di richiudere, o almeno rimpicciolire, la ferita di una vita intera. Così nasce La vita di chi resta, un capolavoro intriso di realtà, raccontata da una penna speciale.

E nasce perché Matteo proverà, durante gli anni dopo il suo trauma, a cercare qualcuno come lui. Che abbia il suo stesso dolore, che stia camminando sullo stesso filo. Ma nessuno parla dei sopravvissuti, non c’è traccia di chi deve scontare una scelta che non ha fatto. Non ci sono consolazioni sul contenere il tormento, il senso di colpa, il rimpianto di non aver fatto, di non aver detto.

E allora La vita di chi resta è una testimonianza al mondo a cuore aperto. Un cuore sincero che discorre su come sia straziante restare, sopravvivere, parlare con la vita e dirle ok, peggio di così non puoi farmi.

Chi resta sono i sopravvissuti, cioè i parenti, gli amici e gli affetti di qualcuno che decide di togliersi la vita. Quelli che restano dopo l’atto estremo e in un modo o nell’altro ci fanno i conti, lo affrontano, lo attraversano. Non possono che questo.

Matteo sta tornando a casa, un giorno del 1998. Nella sua vita è in corso la fine della storia col suo compagno. È lui che poco prima lo chiama, gli dice Quando torni io non ci sarò già più.

Matteo rientra in casa, cerca l’interruttore della luce, ma l’unica cosa che trova è l’inizio del travaglio di un’esistenza: la telefonata si avvera, ed è una percossa indicibile, che getta Matteo nella vita. Nella vita di chi resta.

A nulla serviranno i terapeuti, la sensitiva, tutto sarà da scontare con la propria coscienza, con un senso di pudore che con gli anni aumenterà sempre di più.

È il dolore di Matteo, che lui sente suo, solamente suo. Un dolore che deve vivere fino in fondo, che deve attraversare da solo, al punto che anche i farmaci gli sembreranno la privazione di qualcosa che lo lega ancora a chi ha perso, e persino gli altri faranno parte solo di una scenografia:

Impari a fingere con tutti. Esci, parli, sorridi, ti mischi agli altri, rassicuri di farcela, che tieni botta. Dentro hai l’inferno che brucia e scava. Fuori ti atteggi a normale.

La lucidità sofferta con cui si ripercorre la voragine infinita è un duro colpo per chi legge, caratteristico dei capolavori. Non è lenta la realizzazione che sia un libro che ti fa pensare non è finita qui, perché sai che lo riprenderai, avrai bisogno di sfogliarlo ancora: gratta dentro in un modo che spaventa, che insiste.

Essere scrittori, Matteo Bianchi lo sa, è l’assurda scommessa di mettere in campo il proprio dolore e vedere se così passa. Quando un uomo riesce in questo, ricucendo il suo strappo e quello degli altri, può dire di esser riuscito in tante cose della sua vita.

Perché c’è tanto male nel mondo, Bianchi lo descrive in maniera perfetta: il dolore esiste.

E l’unico modo per salvarsi è scavarci dentro, a fondo, arrivare dove nasce e dirgli che più di così non si può scendere. Farsela insieme la risalita.

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