La voce dell’Azzurro di Daria Bignardi: «Non è mai un buon momento per lasciarsi»

by Felice Sblendorio

Dei suoi personaggi ammette sempre di sapere qualcosa, ma mai abbastanza. Gli scrittori d’altronde fanno quello che possono: le vite dei protagonisti tutto. Anche nel suo settimo romanzo, “Oggi faccio azzurro” (Mondadori, 168 pagine, 18 euro), Daria Bignardi muove con maestria i suoi protagonisti in una storia di amore e di mancanze, di separazione e di luce.

In un libro denso di colori e arte, la scrittrice, autrice e conduttrice televisiva apprezzata per i suoi libri tradotti in quattordici Paesi, per un memoir amatissimo e premiato come “Non vi lascerò orfani” e per alcuni programmi televisivi cult – dalla prima edizione del “Grande Fratello” a “Le invasioni Barbariche”, da “Tempi moderni” a “L’Assedio” – torna a raccontare il legame fra l’amore e il dolore, e la crudele relazione quasi irredimibile che li lega dopo una perdita.

Galla, personaggio dal nome imperiale, è stata lasciata all’improvviso, dopo vent’anni, da suo marito Doug. In un’estate scura tutto si spezza, si incrina: trascorre le sue giornate sul divano, fissa una magnolia, si relaziona con il mondo esterno solamente per andare dalla psicanalista o per frequentare un coro di detenuti tossicodipendenti. Solo in carcere, in quel dentro delimitato da un confine, Galla sta bene. Il silenzio delle sue giornate, però, viene scombussolato dall’irriverente e rivoluzionaria voce di Gabriele Münter, pittrice espressionista, compagna di vita e componente del gruppo del Cavaliere Azzurro di Vasilij Kandinskij. Un fantasma del passato, quello di Gabriele, che darà un senso al dolore di Galla e, indirettamente, a quello degli altri due protagonisti del libro, introducendo una grammatica dei sentimenti capace colmare una mancanza, neutralizzandola. In un romanzo così polifonico non è un caso che arrivi una voce per tentare di ricomporre un’esistenza sospesa, per dimenticare le cicatrici profonde di un abbandono, per ricominciare a vivere con gli occhi dritti al cielo, respirando.

bonculture ha intervistato Daria Bignardi.

Questo suo settimo romanzo è un libro di abbandoni e immobilismo, di solitudine e unione, di voci e amicizie che sono un sollievo, una cura. Le vite sospese di Galla, Bianca e Nicola si incrociano nello studio di una psicanalista. Qual è il loro posto nel mondo?

Ecco, nel momento in cui si svolge la storia loro non lo sanno. Ma non sanno neanche di non saperlo.

Nell’incipit del libro è Galla a parlare: «Ho perso – per mia colpa – il mio grande amore». Il senso di colpa è il tormento di questa storia?

Proprio così: e sembra quasi che Galla soffra più per il senso di colpa che per la perdita del marito Doug.

Appartiene al passato ma non alla nostalgia la voce immateriale che dialoga con Galla. Lei ha scoperto Gabriele Münter dopo un incendio: una fatalità?

Dopo sette romanzi tendo a pensare che niente sia un caso, nei romanzi.

Al suo fantasma le dona la voce di una femminista radicale che esorta Galla a reagire, pensare al suo lavoro, non preoccuparsi degli uomini perchè quando si diventa scomode ti lasciano. Chi era questa donna?

Io l’ho immaginata come una donna molto libera e piena di talento che per dieci anni della sua vita paga un prezzo altissimo alla sua grande storia d’amore con Kandinskij. Loro stettero insieme 14 anni, gli anni più importanti per la formazione artistica di entrambi, ma quando Kandinskij la lasciò – in modo piuttosto vigliacco – Gabriele finì dentro a una cupissima depressione che durò dieci anni. Per fortuna poi guarì e dipinse per altri trenta.

Le fa dire che gli uomini, a partire dal suo Kandinskij, non vogliono né invecchiare e né ricordare. Condivide? Lei che rapporto ha con il tempo che passa? 

Non so se condivido: credo che valga per alcune persone e non per altre: io sto meglio ora di quando ero giovane e per ora il tempo che passa mi fa solo un favore, in futuro si vedrà.

I suoi protagonisti sono immersi nel dolore: è ancora presente, aperto, scomposto. Il dolore che si sta sopportando è più feroce di quello già sopportato?

Certo. Il dolore passato è passato, lascia le cicatrici ma anche il sollievo di esserne usciti. Visto da fuori, fa l’autore coi suoi personaggi, può essere anche comico, ma mentre lo si vive è insopportabile.

Scrive: «Questa cosa Doug non la tollerava. Diffidava del dolore. Godeva dell’arte, ma non sopportava l’idea che potesse nascere dalla sofferenza». La sua scrittura da dove nasce?

Credo nasca dalla lettura, perchè ho letto tanto e leggo tanto. Dalla familiarità con la parola scritta, che mi ha sempre parlato più di qualunque immagine. E dallo sguardo che ho sempre avuto sul mondo, e dal mio bisogno di raccontarlo.

La scrittura non corre mai il rischio di essere vittima del dolore?

Se sei uno scrittore no, anzi.

L’abbandono di Doug mi ha ricordato un verso di “Adius” di Piero Ciampi: «La tua assenza è un assedio, ma ti chiedo una tregua prima dell’attacco finale». Galla non accetta la decisione improvvisa di suo marito: serve sempre una tregua propedeutica prima di un addio?

Chi lo sa. Non è mai un buon momento per lasciarsi. Bellissimo il verso di Ciampi: te lo ruberò.

Sembra che i grandi amori conoscano solamente una conclusione estrema. I frantumi di un amore sono difficilmente ricomponibili?

Mi chiedi una cosa a cui davvero non so rispondere. L’amore è un enigma, possiamo solo provare a risolverlo ma non è detto che ci riusciamo o che ci riusciremo mai.

Questi personaggi sono feriti da alcuni tradimenti affettivi. Ma l’amore, come scriveva Andrea Pazienza, non è tutto ciò che si può tradire?

Ancora: non lo so! Davvero. Però sto prendendo appunti perchè mi stai citando autori che adoro.

In varie pagine ritorna la sua curiosità sul presente. Lo testimonia l’interesse per l’adolescenza di Bianca, il suo linguaggio, i suoi amori, i suoi miti musicali. Cosa le piace (e invidia) dei tempi moderni delle nuove generazioni?

Non invidio niente, mi piace tutto.

Si scrive quasi sempre di cose prossime alla nostra esperienza. Lei dedica molte pagine al carcere, ai detenuti. Il carcere da tempo è un luogo che lei ha scelto di frequentare. Cosa ricorda della prima volta?

Della prima volta mi ricordo l’umidità.

Bianca afferma che il carcere è inutile e deleterio. Lei ha capito quando può essere utile?

Credo che possa esserlo un poco solo se dà l’opportunità di creare una relazione personale con qualcuno che ti dia fiducia.

Nabokov scriveva che «il dettaglio è sempre benvenuto». Un capitolo commovente di questo libro ricco di arte nasce da due dettagli cromatici: il giallo di un taxi col tetto sfondato dalle macerie e il rosso di un autobus fermo nel piazzale di una stazione. Racconta la strage del 2 agosto 1980, la ferita mai rimarginata di Bologna. Lei è figlia di quella terra: che ricordo ha della strage?

Ero appena passata dalla Stazione di Bologna quel giorno, diretta a un imbarco a Civitavecchia per la prima vacanza senza genitori, con quattro amiche, in tenda. Fu un trauma, come per tutti.

Oggi faccio azzurro” è un titolo magnifico. Che cosa significa?

È un modo di dire tedesco che significa “Oggi non vado a lavorare” e viene dal Medioevo quando gli artigiani avevano un giorno libero alla settimana e in quel giorno potevano vedere il cielo.

Lei ha lavorato tanto: i giornali, la televisione, i libri, ora un programma quotidiano su Radio Capital. Si è mai concessa un periodo azzurro?

Sì, diversi, perchè sono stata dipendente solo per una manciata di anni, per il resto ho fatto la libera professionista e ho passato diversi periodi a leggere, in casa, senza lavorare, anche se poi ho capito che dentro continuavo a lavorare a qualche storia.

In televisione lavora per sottrazione: nei libri, invece, si espande. La pagina la protegge?

È il tempo che mi lascia espandere. Il tempo di scrivere, riscrivere, riscrivere ancora, e ancora.

Questo romanzo esce dopo un periodo molto complesso come il primo lockdown. In “Non vi lascerò orfani” ha raccontato la sua infanzia molto simile a una quarantena. Ha scoperto qualcosa in questi mesi?

In realtà niente che non sapessi già da un po’. Forse ho capito meglio quanto sia inutile fare progetti e illudersi di poter controllare tutto.

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