“L’alfabeto di fuoco”, la distopia genitori/figli di Ben Marcus che sembra profetizzare il Covid-19

by Antonella Soccio

Lebov riprese a tossire e quando si riportò la maschera alla bocca, i colpi di tosse divennero vacui, l’eco di qualcosa che avveniva all’esterno del Forsythe, un codice segreto che veniva condiviso fra gli animali della foresta.

La lettura di “The Flame Alphabet” di Ben Marcus, in italiano “L’alfabeto di fuoco” edito da Black Coffee- un progetto editoriale dedicato alla letteratura nordamericana contemporanea che ospita decine di autori esordienti e voci fuori dal coro- sembra ricalcare il vissuto della pandemia da Covid-19 e la nostra immensa quarantena, che non sappiamo ancora quanto durerà e come ci tramuterà.  

Non è un horror, benché abbia molte pagine splatter. Piuttosto appare un romanzo claustrofobico sulla famiglia mononucleare e sui riti della società occidentale. Con accenti surrealisti tipici dello scrittore, che crea una intensa suspence sui sintomi del contagio, sempre più purulento e rivoltante.

L’alfabeto di fuoco pone un interrogativo attualissimo in tempi di Coronavirus: cosa rimane della civilizzazione quando perdiamo l’abilità di comunicare con le persone che amiamo? Cosa accade quando le parole di chi più amiamo sono fiamme roventi che ci scuotono l’anima e l’epidermide?

Una terribile epidemia si diffonde nella provincia americana apocalittica e consumistica: le parole dei bambini e degli adolescenti feriscono, sono dei virus, che uccidono gli adulti. Il linguaggio delle giovani generazioni è letale, tossico: nei parchi i genitori vedono i loro figli e sperano che si allontanino da loro, in modo da lasciarli quieti nella loro afflizione.

L’impressione all’inizio è di non capire bene quale sia l’idea da cui è partito l’autore. È come quando si ha un’intuizione straordinaria, però poi non si riesce a dar seguito a quella illuminazione.

L’idea originaria sui cui è costruita la scaletta della trama è abbastanza semplice, ma potente al tempo stesso: i bambini e i ragazzi infettano gli adulti con la loro aggressività verbale, con le loro parole ambivalenti che infuocano i tessuti epidermici degli adulti. Per una buona metà del libro però, non assistiamo mai ad una esplicazione dell’idea, non c’è trama, non c’è azione. C’è una non trama appunto, costituita dalla descrizione molto accurata dei sintomi, con una accentuazione lirica verso il disgusto, intervallati da sprazzi interessantissimi (ma sparuti) sul rapporto tra figli/genitori.

Sfortunatamente, l’autore non dà seguito a questi aspetti psicologistici. Il lettore comprende, intuisce che a ferire più che il bizzarro pretesto delle parole di fuoco su cui è costruito tutto il romanzo è l’incomunicabilità tra genitori e figli, l’essere troppo impauriti e accondiscendenti dei primi rispetto ai secondi. I figli ed Ester, figlia della coppia protagonista, in particolare, avrebbe bisogno di odio, di autorità, ma ottiene solo remissività, arrendevolezza dai genitori spenti. Malati appunto. Tanto malati da perdere progressivamente le proprie parole. Questo filone psicologico/ analitico però non viene perseguito dall’autore e si torna per così dire alla distopia o meglio forse alla fantascienza. E quindi al racconto dei sintomi e di una relazione vuota tra i personaggi.

Fino allo scoppio del Coronavirus nel mondo il libro poteva sembrare anche un po’ soporifero, ma ora l’adiacenza virologica lo ha reso “profetico” su alcuni comportamenti di paura e panico. È profetico quando parla dell’isolamento e della necessità degli anziani di star lontani dai loro figli.

I figli, spesso portatori sani di vita e di virus, infettano. Il romanzo si conclude con un mezzo happy ending. Si spera che anche la pandemia arresti la sua voglia di morte.

Nel romanzo c’è anche un sottotesto, legato all’ebraismo. I due coniugi fanno parte di una particolare confessione, che prega e medita di nascosto in buche e rifugi sotterranei e la loro adolescente si chiama Esther, “colei che si nasconde”. Una metafora che sembra parlare del nostro tempo odierno: per sopravvivere dobbiamo nasconderci alla nostra natura di animali sociali e politici.

Alla fine fu una scoperta semplice. Avrei dovuto arrivarci mesi prima. Nei polmoni dei bambini in iperventilazione- in generale capii in seguito i bambini spaventati, in preda a una scarica di adrenalina- si formava un residuo che il bambino poi espelleva involontariamente. E una volta che quel residuo veniva ripulito da tutte le impurità, rinforzato con alcuni sali e sottoposto a una fonte di calore, costituiva le fondamenta della nostra immunità. Il Gioco da Ragazzi. E i potevano lasciar entrare le parole, anche se per poco. Che quell’operazione dovesse essere autorizzata è un’altra storia ancora.

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